Non so se ci avete fatto caso, ma negli ultimi tempi stanno girando dei termini stranieri che esprimono concetti complessi, che in italiano richiederebbero un giro di parole. La presidente del Consiglio ha fatto ricorso al greco per spiegare che l’azione del Governo sarà improntata a uno stile definito “meraki”. Chi ha fatto il classico non lo cerchi sul Rocci: è un termine del greco moderno che significa più o meno “volontà di fare le cose con entusiasmo, con piacere, con amore”.

Qualche giorno fa, al Ruggito del Coniglio, ho sentito parlare di “sisu”, una parola finlandese che indica perseveranza, forza di volontà, razionalità, determinazione, tutte qualità che aiutano ad affrontare le sfide della vita quotidiana. Al sisu la scrittrice Katja Pantzar ha dedicato un libro, Sisu. La via finlandese al coraggio, al benessere, alla felicità, per spiegare come le è servito per sconfiggere la propria depressione.

Ora, non so e neppure mi interessa particolarmente quanto questi due concetti potranno incidere sul modo di vivere o di governare degli italiani, ma da loro prendo lo spunto per due considerazioni.

La prima considerazione è che mi rafforzo nella convinzione ché la dove non esiste una sola parola per indicare un concetto, ma ne servono tre o quattro, non esiste neppure la realtà indicata dalla parola-sintesi nell’altra lingua. Dato che i miei articoli per il Sussidiario riguardano quasi sempre l’educazione, prendo esempio da tre parole inglesi molto diffusi in questo campo, anzi il primo è proprio education, che indica contemporaneamente l’educazione, il sistema educativo, la formazione professionale.

Educationalist è lo studioso che si occupa di questa complessa realtà, e non ha una specifica appartenenza disciplinare – pedagogista, sociologo, psicologo, esperto di didattica – o meglio travalica i limiti di una singola disciplina per arrivare a una visione complessiva, che tiene conto anche degli aspetti strutturali e operativi. In Italia gli educationalist in senso stretto non esistono, perché è quasi impossibile superare l’afferenza scientifica, e perché verrebbero immediatamente accusati di occuparsi, ciascuno di essi, di cose che non li riguardano. È la logica che in un’altra lingua straniera, il milanese, viene definita ofelè, fa el to mesté (sempre per chi ha fatto il classico, sutor ne ultra crepidam).

Il secondo termine è empowerment, la cui traduzione letterale, “potenziamento”, non rende giustizia alla ricchezza di significati dell’inglese, che indica la capacità di dare a una persona la possibilità di diventare più forte, più capace, più felice. Il terzo termine è accountability, che riferito alla scuola e all’università (ma più in generale a tutte le istituzioni pubbliche) indica l’affidabilità, il senso di responsabilità nell’uso del denaro pubblico, e quindi la capacità di render conto delle spese. Per cui la frase “Tom, Dick and Harry are educationalists studying empowerment and accountability” (dieci parole) andrebbe tradotta “Tizio, Caio e Sempronio sono un sociologo, uno psicologo e un pedagogista che studiano il senso di responsabilità e l’affidabilità delle scuole e la loro capacità di potenziare le risorse che consentono ad una persona di realizzarsi” (trentotto parole, e in più qualche sfumatura ancora sfuggirebbe).

La seconda considerazione è invece su di un piano diverso. Rileggetevi i contenuti delle due parole da cui sono partita: “volontà di fare le cose con entusiasmo, con piacere, con amore”; “perseveranza, forza di volontà, razionalità, determinazione”. Al possesso di queste qualità vengono legati il ben-essere, il bene-stare, in altre parole la qualità della vita, e dobbiamo prendere atto che si riferiscono tutte a tratti della personalità, con una definizione più tecnica character skill, proprio quelle competenze genericamente definite non-cognitive di cui si sta molto discutendo. Nate nell’ambito della qualificazione al lavoro, sono poi migrate in un’accezione più globale, e la ricerca è orientata sia a definirle meglio, sia a capire se la scuola può (e deve) in qualche modo agire su di esse per migliorarle, posto che esiste un elevato accordo sul fatto che vengono acquisite nei primi anni di vita in famiglia, nell’ambiente, con gli amici.

Le esperienze in atto in altri Paesi, e informalmente anche da noi (informalmente significa che da sempre i bravi insegnanti ne riconoscono l’importanza e ne tengono conto), ma anche formalmente con esperienze a Torino, a Trento, in altre scuole e CFP in diverse parti del Paese, mostrano che il rinforzo di queste competenze è particolarmente positivo per i ragazzi che hanno un approccio più debole alle competenze accademiche, e anzi li aiutano anche in questo senso, tanto che può essere collocato fra le misure per prevenire e ridurre l’insuccesso.

Ricordo in proposito che quando nel gennaio scorso fu approvata alla Camera la proposta di legge sull’introduzione nei programmi delle competenze non cognitive (legge a cui io continuo a preferire una sperimentazione attentamente controllata, che sta dando risultati di grande interesse, anche se su un numero limitato di scuole), ci fu un violento attacco da molte parti, che vedevano nella legge la morte della cultura, e contemporaneamente un’invasione della libertà delle persone, e addirittura un tentativo di ritornare allo Stato etico. Forse chi ha così duramente attaccato, magari con poca consapevolezza di ciò di cui si stava parlando, potrebbe rivedere i propri giudizi alla luce delle competenze che servono per una vita buona per il maggior numero possibile di persone. Tenendo magari presente che curricoli e competenze importano, ma importa soprattutto la qualità della relazione educativa, perché, come disse papa Francesco in una piazza san Pietro deserta, sotto la pioggia, nel marzo del 2020, “nessuno si salva da solo”. E questo si insegna e si impara non grazie alla tecnica, ma nella vita quotidiana della scuola.

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