Dicono che a Natale bisognerebbe essere felici, al calduccio nelle case, con gli affetti più cari, insieme. Dicono che il giorno di Natale sia uno dei più belli dell’anno, ricco di piccole gioie e di momenti indimenticabili. Un giorno generoso, di pace, dove tutto si può superare e dove la magia mette ordine in ogni cosa. Eppure, non è sempre così. Non è certamente così per il popolo ucraino, costretto a un Natale freddo e a luci spente da una guerra che non se ne vuole andare dalle azioni, dalle menti, dai cuori.

Non lo è per i milioni di persone che vivono questo giorno esposti al conflitto, alla fame e alla povertà generati da un sistema iniquo e ingiusto. Ma non lo è neppure per chi oggi apparecchierà tavola e si soffermerà su quel posto occupato fino a non troppo tempo fa da un volto noto, voluto, amato. Un volto che oggi non ci sarà e che, magari per non rovinare la festa a nessuno, sarà silenziosamente ricordato dalle tante lacrime trattenute che affioreranno durante il giorno, al momento del dolce, dei regali o del vino preferito. E non lo sarà neppure per i tanti, troppi, che dovranno fare i conti con un matrimonio che non funziona più, una relazione interrotta, una malattia che ha bussato alla porta troppo presto o una vita in fondo difficile da accogliere e da benedire.

Certamente qualcuno spensierato ci sarà, ma anche chi brinderà e mangerà allo sfinimento dovrà fare i conti con qualcosa che non tiene, con una paura nascosta, con un silenzio che viene da lontano e che – di tanto in tanto – sembra possa minacciare tutto. Il Natale non è la festa che viene descritta dagli spot televisivi, dalle case degli influencer o dai mitici ricordi di un’infanzia che non c’è più: il Natale è una festa drammatica, in cui l’abisso di solitudine ed esclusione che non di rado invade le anime di molti lentamente affiora, s’insinua e si esprime. Può attutirlo la presenza di un bambino, la saggezza di un anziano, il “quieto vivere” che in tanti vogliono mantenere, ma il Natale – in fondo – è una gigantesca domanda: perché la vita non mantiene ciò che promette? Perché tutto finisce? Perché le persone care ci lasciano? Perché, nonostante tutta la fatica che ci abbiamo messo per costruire, tutto s’affastella e crolla?

Un antico libretto, di quelli ormai dimenticati, dice a un certo punto che “Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”. Censire, in latino, non significa solo “contare”, ma anche “misurare”. La “terra”, inoltre, è da sempre associata al tema del desiderio. Ci fu un tempo, dunque, in cui gli uomini vollero misurare la grandezza – la profondità e la drammaticità – del loro desiderio. “Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città”, ognuno a partire dalla propria storia. Anche due giovani, chiamati Maria e Giuseppe – carichi della loro storia -, andarono a misurare l’ampiezza del loro desiderio. Proprio in quei giorni si compirono per Maria, che era incinta, i giorni del parto. Il figlio di Maria nasce durante un censimento che non è soltanto storico, ma che – nell’allegoria che ci insegnano i Padri – rappresenta il tentativo dell’uomo di misurare, di comprendere e di capire, il desiderio del proprio cuore. Maria, si potrebbe dire, partorisce dentro il nostro desiderio, dentro i nostri drammi, dentro il nostro dolore.

La culla di Cristo è quella sedia vuota a tavola, è quegli anelli nuziali che faticano a mantenere intatto il loro senso, è quella tac o quella risonanza nefasta, è quel volto che ci sfida e ci interroga. Dio nasce non nell’idea che noi abbiamo della vita, Dio non viene nel mondo che dovrebbe esserci, ma nel mondo che c’è, nella vita che abbiamo. È lì, in Ucraina come agli angoli delle strade, nelle nostre famiglie ferite come nelle parole che non riusciamo più a dire, che Dio viene, che Dio inizia, che Dio si dona. E il Suo dono non è magia, non è risoluzione improvvisa e miracolosa di vite travagliate e fragili o di situazioni fino al giorno prima irrimediabili. Cristo non è una bella storia di Natale, ma Uno che entra nella nostra stalla, Uno che si mischia con la miseria degli ultimi di ogni terra, Uno che – mentre tutti vorrebbero solo fuggire – sceglie di stare, di abitare in mezzo a noi.

Il Suo dono è anzitutto consapevolezza. È vero: certe persone non ci sono più, certe cose si sono rotte per sempre e altre si stanno rovinando, certe pagine sono certamente già scritte e certe altre forse sono pure finite. Ma quel fatto, quello che è accaduto – o sta accadendo – e non si può contestare, non è l’ultima parola della storia, non è il finale di tutto. C’è ancora un pezzo da vedere, c’è ancora qualcosa che si deve muovere, c’è ancora un avvenimento da sorprendere. Non è finita lì: la vita non termina col nostro dolore, con la nostra rabbia, con le nostre ingiustizie o le nostre miserie. C’è ancora un tempo da giocare. Come nelle migliori partite. E in questo tempo c’è Lui, c’è quel bambino, con la Sua apparentemente fragile promessa e con la Sua tutt’altro che fragile libertà.

Niente finisce con la morte, niente finisce col fallimento, niente finisce col conflitto o con la paura: tutto comincia con quel vagito che squarcia la notte e sfida ciascuno di noi a dargli credito, a seguirlo. È questo il Mistero del Natale: un Dio che nasce nel profondo del nostro desiderio e che ci chiede di scommettere su di Lui, di seguirlo nella Galilea che verrà, nella croce che c’è, nella morte che pare inghiottire tutto. È la nostra migliore possibilità. Non è una favola.

Dicono che a Natale bisognerebbe essere felici, ma in fondo gli uomini non sanno che si può davvero esserlo.

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