La sussidiarietà, come dimostra lo stesso Sussidiario, riguarda anche l’informazione. Molto spesso le notizie che ci giungono da nazioni dominate da un regime dittatoriale sono informative o veline che nascono dai luoghi di potere. I resoconti che nascono da chi vive tra la “gente” dicono semplicemente la verità e rendono almeno una minima forma di giustizia a chi ogni giorno soffre e lotta per vivere per la pace, la libertà e un minimo di benessere. Questa lettera dal Myanmar lo dimostra.
Caro direttore,
Ormai dal primo febbraio 2021, data del golpe, cerco di tenervi informati – per quanto possibile – dei drammi che vive il popolo birmano, viste le violenze perpetuate dai militari e il silenzio dei media occidentali. Cercando di fare una sintesi di questi quasi due anni di miei resoconti posso dire che, dopo un’iniziale speranza di poter sovvertire lo stato delle cose, il mio è diventato un triste e penoso racconto di una situazione sempre più difficile. Molta parte della popolazione vive in un grave stato psicologico di depressione, senza distinzione di ceto sociale. E non potrebbe essere diversamente.
Infatti, come più volte denunciato, le prospettive di sovvertire lo status quo, senza un appoggio politico e mediatico internazionale, sono ridotte al lumicino. La gente è profondamente delusa dall’ignavia degli organismi internazionali (Onu e Asean) che si limitano a dichiarazioni di facciata. Gli Usa, che dovrebbero avere un forte interesse a bloccare l’espansionismo cinese, solo la settimana scorsa hanno approvato il Burma Act che prevede aiuti per noi. Speriamo che giungano a destinazione. È un primo passo. Finora erano assenti, prima perché sotto shock per le vicende afghane e poi perché focalizzati dalla guerra ucraina. Lo stesso dicasi per le altre democrazie: per un motivo o per l’altro, si sono limitate a dichiarazioni di principio. In fondo – come dicevano le Cancellerie europee nel 1939 – perché “morire per Danzica?” Figuriamoci per Rangoon!
State facendo un grave errore di sottovalutazione della posta che qui è in gioco: la Cina dopo aver occupato e normalizzato il Tibet (con buona pace dei pacifisti europei), ora ha libero accesso all’Oceano Indiano bypassando lo stretto di Malacca.
Così i generali birmani continuano impunemente la loro operazione di terrore e – letteralmente – di “terra bruciata”: villaggi bruciati, gente costretta a lasciare le già povere case e dormire all’aperto. Questo è ciò ciò che accade ogni giorno anche in zone non periferiche del Paese (come in questo caso). È un dramma: di cosa – e come – vivrà domani questa gente? In quali condizioni igieniche e alimentari, visto che i raccolti sono stati requisiti, i campi bruciati e i farmaci introvabili?
Il Covid imperversa, ma, non ci crederete, è l’ultimo dei nostri problemi. Tutto è relativo: quando si muore di fame o per la violenza, il Covid diventa un dettaglio. In ogni caso i Charity points sono pieni. Né i monasteri buddisti, né i seminari o chiese riescono ad accoglierli. Anzi è stato intimato loro di rimandare a casa (quale casa?) gli sfollati. Lo sforzo assistenziale nelle varie diocesi è comunque enorme e ammirevole, considerando che le zone più colpite dalla violenza sono aree con una presenza cristiana significativa.
Oltre a ciò si ha notizia di altri 7 studenti universitari condannati a morte. Per adesso queste sentenze non sono state eseguite, ma servono per ribadire – semmai ve ne fosse stato bisogno – il clima di terrore di cui sopra.
La vita quotidiana è difficile. L’energia elettrica viene fornita sempre più saltuariamente nelle città: non oso pensare cosa avvenga nelle regioni periferiche e nelle campagne. La scarsità di generi alimentari è ormai conclamata a causa delle requisizioni, incendi dei raccolti e un’attività agricola ridotta alla mera sussistenza. Infatti, i costi del carburante e dei fertilizzanti impediscono, anche laddove non ci sono combattimenti, di poter lavorare a pieno regime. Una nazione che aveva tre raccolti di riso all’anno e non aveva mai sofferto la fame, oggi è in sempre più grave difficoltà. Ciò condiziona anche la lotta armata: la scarsità di generi alimentari e farmaci ha costretto l’Arakan Army (la milizia etnica dello stato di Rakhine) a chiedere una tregua alle forze golpiste. Questo consentirà ai generali di spostare le truppe e aumentare la repressione nelle regioni di Magwe e Sagaing, già martoriate.
La chiesa cattolica ha festeggiato nel dolore il Santo Natale. Questa festività è comunque occasione di festa anche in una nazione buddista come la Birmania. L’anno scorso questa occasione fu però drammaticamente usata dall’esercito per rastrellamenti, arresti e uccisioni per i tanti ragazzi cristiani arruolatesi nella Resistenza che, volendo festeggiare il Natale, raggiunsero i villaggi per la Santa Messa. Perciò questo è stato un Natale di tristezza per tante famiglie e per tutta la comunità cristiana. Mi risulta che solo Papa Francesco si ricordi di loro.
Non mi resta che salutarvi e augurare che almeno voi abbiate potuto trascorrere un felice Natale. Per noi è stato un altro triste Natale.
Un lettore dal Myanmar
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