Sulla necessità urgente, per l’Ue, di una strategia di reindustrializzazione, gli appelli sono quotidiani, da ogni angolo dell’Azienda-Europa (e anche oltre: nelle ultime ore una forte sollecitazione-monito è giunta dell’Agenzia internazionale dell’energia). Lo shock energetico ha colpito il sistema manifatturiero continentale (Germania in prima posizione, Italia in seconda) quando ancora era ancora forte l’impatto della pandemia. Questa ha lasciato non solo  pesanti strascichi congiunturali recessivi, ma  anche la “disruption” strutturale delle catene di rifornimento. Dopo un  paio d’anni, ormai Governi e banchieri centrali restano incerti: l’inflazione (forse inevitabile) si è riaccesa per la paralisi da Covid di fabbriche e navi-container? Oppure è stato decisivo lo “tsunami” russo-ucraino sui flussi di gas e petrolio?

Nel frattempo è certo che l’industria si deve preparare a una fase di ristrutturazione tanto complessa quanto imprevista. Più in Europa che negli Usa e al pari dell’enorme “stabilimento” cinese. I colli di bottiglia imposti dai lockdown alla circolazione di materie prime, semi-lavorati e prodotti finiti non tenderanno a normalizzarsi, anzi: le esemplari forniture di chip sono state risucchiate dalla crisi geopolitica, estesasi dall’Ucraina a Taiwan. E le esplosioni che hanno danneggiato gravemente Nord Stream 2  hanno virtualmente mandato in frantumi il pilastro della strategia industriale tedesca, fondata sull’asse geo-energetico fra Russia ed Europa. Lo stesso petrolio – risorsa “old” – è tornata centrale su un pianeta ancora all’inizio di una lunga transizione eco-energetica.

Spinta da forze potenti l’economia si sta ridisegnando, superando la globalizzazione imposta per un trentennio dalla finanza egemone. La produzione reale  torna a far sentire le sue ragioni quando in modo brusco e improvviso si rialzano muri. La ricomposizione delle catene logistiche e manifatturiere viene sollecitata anche da altre motivazioni. La globalizzazione non ha solo abbassato i prezzi dei voli o delle tecnologie digitali; ha anche frenato la crescita dei salari (oggi aggrediti dall’inflazione) e le forze politiche – in tutto l’Occidente – non sono più insensibili al populismo antagonista delle ormai ex classi lavoratrici. Il “friendly reshoring”, la rilocalizzazione di filiere e processi presso un sistema di Paesi riselezionato da comuni valori politico-istituzionali è quindi una dinamica più profonda rispetto al doppio-shock dell’ultimo triennio.

Costo dell’energia e delle materie prime; costo del lavoro; mercati non più aperti per definizione. E tutto questo quando è già virtualmente finita la lunga stagione di tassi-zero, di “denaro gratis”.  La sfida – per l’impresa manifatturiera – appare di massimo impegno. Ma il contesto non era troppo diverso negli anni ’70: quando lo shock petrolifero innescò un ciclo iperinflattivo particolarmente pronunciato in Italia. Oggi l’intera Europa è parzialmente protetta dall’euro, ma è venuto meno l’effetto-stabilità prodotto dalla divisione del continente in blocchi.

Il futuro di tutti i Paesi dell’allora Comunità economica fu aperto dalla decisione di costruire un’Unione partendo dalla moneta, dalla completa apertura concorrenziale del mercato interno a dalla ricerca di confronti nuovi con altre macro-aree economiche. Il futuro specifico dell’Azienda-Italia fu però generato – “grammo su grammo” di Pil – dall’emergere di un’economia imprenditoriale: una vera e propria re-invenzione socio-economica maturata all’interno dell’industria piccola e media.. L’innovazione tecnologica di prodotto e processo scosse comunque in modo trasversale settori e dimensioni: è stato in quegli anni che alcuni leoni del Made in Italy odierno hanno emesso i primi ruggiti.

La reindustralizzazione non è solo una necessità e una sfida, ma anche un’opportunità per il sistema-Paese. Il nuovo Governo – che nella manovra ha fatto quasi perdere le tracce di “Industria 4.0” e della transizione digitale – non sembra peraltro averlo ben compreso.

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