“Saprò fare di lui un ottimo pastore capace di produrre latte, formaggio e carne. Lui non deve studiare. Ora deve pensare a crescere… lo studio è roba da ricchi: quello è per i leoni e noi non siamo che agnelli…Mi sento tranquillo! È la legge che non è tranquilla. Vuole rendere la scuola obbligatoria. La povertà! Quella è obbligatoria”.

Queste poche frasi tratte da “La scuola non è per i poveri” e contenute nel libro di Gavino Sanna “Padre padrone” si riferiscono al 1944, anno in cui dopo pochi giorni di scuola il piccolo Gavino, sei anni, fu tolto da scuola e mandato dal padre ad accudire le pecore. La storia è nota: Sanna imparò a leggere e scrivere durante il servizio militare e continuò a studiare fino a laurearsi e diventare non solo un glottologo, ma anche uno scrittore.

Ho iniziato da questa citazione perché mi pare che lo scopo fondamentale della scuola, ma anche di tutte le istituzioni formative presenti nella società, purtroppo solo parzialmente raggiunto, sia lo sviluppo globale della persona, il suo  empowerment: in questo caso, il termine inglese che significa letteralmente “potenziamento”, ma nel senso di dare a una persona il potere o la possibilità di diventare più capace, più forte, più felice, sintetizza una serie di concetti che in italiano andrebbero espressi con più parole.

Per raggiungere questo scopo, a prescindere dal tentativo di ridurre le disuguaglianze sociali, compito che la scuola non può assolvere, è necessario rimuovere i condizionamenti posti dall’appartenenza a gruppi in qualche modo svantaggiati, e quindi la realizzazione di una (maggiore) equità è al tempo stesso un obiettivo della scuola, e una condizione per il raggiungimento di altri obiettivi, per esempio la riduzione degli insuccessi o la crescita della qualificazione.

Per rispondere ai bisogni dei più deboli, che non necessariamente ma molto spesso sono anche i più poveri, si è fatto molto, ma io mi chiedo se sia necessario ricorrere a misure speciali, o se basterebbe far funzionare la scuola di tutti.

Molti anni fa, in occasione di una serie di ricerche sulle barriere architettoniche e sull’inserimento di quelli che allora si chiamavano handicappati, e oggi forse più correttamente “diversamente abili” (ma un’etichetta meno stigmatizzante non sempre coincide con il cambiamento degli atteggiamenti e soprattutto delle strutture…), un architetto a sua volta con problemi di mobilità mi disse che una scuola a misura di disabile è una scuola migliore per tutti.

Oggi vedo una tendenza all’etichettamento, quasi che per aiutare i bambini in difficoltà sia necessario prima catalogarli come Dsa, o Bes, dimenticando che molto a lungo gli insegnanti, soprattutto nella scuola di base, sapevano inserirli nella normale attività della classe, ricorrendo a un aiuto esterno solo in casi gravi. Nasce il sospetto che sulla pelle dei più deboli si inneschino meccanismi di allargamento del corpo docente, spesso senza una reale preparazione: ma questo è un tema complesso, su cui ritornare.

Per trovare delle risposte valide al tema di come realizzare una maggiore equità, considero importante partire da un’ipotesi teorica, ma possibilmente validata nella realtà, e a questo proposito mi sono imbattuta qualche giorno fa in un articolo di un autore sudafricano, Wayne Hugo, che insegna “educazione e sviluppo” nell’università di KwaZulu-Natal (vedete che le buone idee si possono trovare dovunque). Hugo sostiene che per risolvere il problema della “pedagogia per i poveri” (questo il termine da lui usato) è necessaria una buona dose di “immaginazione pedagogica”, per evitare gli errori che impediscono di intervenire efficacemente. Ne riprendo rapidamente alcuni che mi sembrano interessanti per il pensiero sulla scuola e per le politiche educative del nostro paese.

Il primo è un “errore di imitazione”, e consiste nel pensare che un provvedimento che ha funzionato in passato debba continuare a funzionare, senza tenere conto del fatto che le circostanze cambiano.

Il secondo errore è pensare che un provvedimento funzioni allo stesso modo in qualsiasi situazione: l’esempio fatto riguarda i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo, ma in Italia il costante divario fra zone diverse del paese mostra che i provvedimenti centralizzati non hanno avuto l’effetto voluto, anzi hanno esasperato le differenze. Lo sforzo di adattare modelli educativi nati in tempi e luoghi diversi finisce poi con il tradursi nell’assenza di un modello, perché quello importato non funziona.

Il terzo errore è pensare che per innovare si debba partire da provvedimenti già formalizzati, errore comunissimo nel nostro paese, dove c’è una specie di bulimia normativa per cui invece di partire dalla sperimentazione per poi passare (eventualmente) alla generalizzazione normativa, prima si formula la norma, in base a un’ipotesi ma senza nessuna idea se possa funzionare, e poi si chiede alle scuole di metterla in pratica. Ora, poiché è il decisore politico che scrive le riforme, ma sono gli insegnanti che le mettono in atto, dal momento che si ignora la possibilità delle scuole di formulare proposte adeguate ai bisogni della propria utenza, o di parte di essa, questo modo di procedere rende probabile il fallimento.  Parafrasando Tolstoj, se i ragazzi “normali” sono – più o meno – tutti uguali, i ragazzi con bisogni particolari sono tutti diversi, anche quando apparentemente hanno il medesimo bisogno.  Tra l’altro in molte situazioni “di confine”, dove si concentrano i ragazzi a forte rischio di insuccesso, sono sbagliati sia la richiesta di formalizzazione che il replicare tali e quali interventi che hanno funzionato altrove e questo si può imputare all’errore più grave, la “presunzione ideologica”, cioè il pensare che per migliorare sia sufficiente passare da interventi  “tradizionali” a “progressisti”, e invece  non è vero che un’ideologia solo perché è innovativa produce provvedimenti validi e attuabili dovunque e comunque.

Una rilettura critica dei provvedimenti finalizzati a ridurre le disuguaglianze secondo queste chiavi interpretative sarebbe a mio avviso molto utile, in un momento in cui sembra che tutti i problemi possano essere risolti aumentando gli stanziamenti. Non è così, e non lo è mai stato: in un lavoro agli inizi degli anni Ottanta, un gruppo di ricercatori coordinato da Marco Martini e da me dimostrò che il problema non era tanto la mancanza di fondi, quanto il modo in cui venivano spesi, il modello organizzativo. Delle carenze riscontrate in quegli anni – eccesso di burocratizzazione, centralismo esasperato, marginalizzazione delle scuole non statali, finanziamento indifferenziato e con minimi margini di manovra per le scuole, reclutamento e carriera insegnante incapace di valorizzare il merito – praticamente nessuna è stata risolta.

Certamente è opportuno pensare anche a provvedimenti specifici, mirati a segmenti di popolazione debole, ma si potrebbe incominciare facendo funzionare la scuola di tutti, e rendendola, direbbero gli informatici, user friendly, amichevole per i ragazzi prima che per gli insegnanti.

Ma se per migliorare, per passare da una scuola “orizzontale” a una scuola “verticale”, che ripristini la sua funzione di ascensore sociale, come ho sentito dire in un’intervista del ministro mentre completavo questo articolo, l’impegno è quello di non diminuire l’organico nemmeno quando la scuola perderà un milione e mezzo di iscritti, ho paura che l’ascensore resterà bloccato fra due piani…

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