Le osservazioni fatte più di vent’anni fa da Richard Sennet, professore alla London School of Economics, stanno recuperando attualità. Davanti alla confusione non serve “mettere falsamente l’accento sull’unità come fonte della forza di una comunità”, né “rafforzare i criteri morali, chiedere agli individui che si sacrifichino per gli altri, promettendo che se ubbidiscono a criteri comuni troveranno reciprocamente forza”.
L’incertezza non sta finendo. Anche se Putin alla fine non concretizzasse la sua minaccia di invadere l’Ucraina, la crisi di questi giorni ci ha ricordato la dipendenza energetica dell’Unione europea. La soluzione d’emergenza concordata tra Washington e Bruxelles è stata di cercare il gas del Qatar, il Paese del Golfo che è un altro attore della destabilizzazione mondiale con il suo forte appoggio ai Fratelli Musulmani. Mettersi in mano dei promotori dell’integralismo islamico non sembra una soluzione stabile. La stabilità non arriverà fino a quando il Vecchio Continente non terminerà la sua transizione energetica e c’è ancora molta strada da fare.
Incertezza in Europa, incertezza nel mondo. Qualche giorno fa, il Fmi ha abbassato le sue previsioni di crescita economica per quest’anno, la fine della salita dei prezzi e dei problemi sulle forniture non è vista molto vicina. Senza una ripresa ancora consolidata, la politica monetaria negli Stati Uniti torna a essere più restrittiva.
L’incertezza non è una novità. Nel corso della storia, la vita è cambiata continuamente a causa delle guerre, delle epidemie, del progresso. Ora, la soluzione sembra essere la flessibilità. L’economista Emilio Ontiveros, come tanti altri, sostiene che la pandemia ha accelerato processi che erano già in divenire: “Il nuovo ambiente creato dal prolungarsi della pandemia e le sue conseguenze economiche hanno costretto le imprese ad accettare definitivamente che l’abitudine sia una cattiva soluzione. La rinnovata complessità richiede molto più di prima organizzazioni flessibili”. Organizzazioni flessibili, lavoratori senza vincoli stabili con le imprese, relativizzazione degli spazi fisici.
Sembra che siamo un passo avanti rispetto a quello che, 25 anni fa, Richard Sennet chiamava “il capitalismo flessibile”. Nel suo libro L’uomo flessibile già avvertiva sulle conseguenze antropologiche: se la flessibilità e l’incertezza implicano che non vi sia niente a lunga scadenza nella vita delle persone, “si dissolvono i legami di fiducia e impegno e si separa la volontà dal comportamento”.
Come soluzione al capitalismo flessibile, per non parlare del capitalismo digitale, cerchiamo un “noi” che ci protegga dalla mancanza di vincoli. “Le incertezze della flessibilità, l’assenza di impegno con radici profonde e, soprattutto, lo spettro del non riuscire a ottenere nulla da soli nel mondo, di farsi una vita con il lavoro (…) spingono a cercare altri scenari di profondità”. Si cerca un “noi” alternativo a quello che proveniva dal mondo del lavoro. Sennet parlava del mondo del lavoro, ma il problema riguarda gli “altri mondi” nei quali abitiamo.
Questo “noi”, questa comunità alternativa, molte volte non è sana. La risposta alla confusione si articola come desiderio di costruire unità e questo avviene rafforzando esortazioni morali, chiedendo agli individui di sacrificarsi per gli altri con la promessa che se ubbidiscono a criteri comuni troveranno la forza e la realizzazione emozionale che non possono sperimentare come individui isolati. Sennet fa notare che questo non risolve niente. Lo si vede, per esempio, nei membri di un team di lavoro che “si suppone condividano una motivazione comune, e proprio questa supposizione indebolisce la comunicazione”. Tuttavia, il sociologo sottolinea che le comunità forti sono quelle che si concepiscono come processo, nelle quali “l’espressione del disaccordo unisce la gente più che la semplice dichiarazione di principi corretti”. È qualcosa di simile a quanto diceva in ambito teologico qualche anno fa Ratzinger: “Non è lecito pretendere che tutto debba inserirsi in una determinata organizzazione dell’unità; meglio meno organizzazione e più Spirito Santo! Soprattutto non si può sostenere un concetto di comunione in cui il valore pastorale supremo consista nell’evitare conflitti”.
Sennet indicava che il legame, la comunità, nasce dalla dipendenza. Tuttavia, “tutti i dogmi del nuovo ordine trattano la dipendenza come una condizione vergognosa (…), la vergogna di essere dipendente ha una conseguenza pratica, erode la fiducia e l’impegno reciproco (…) Quanto più vergognosa è la sensazione di dipendenza e la limitazione, tanto più si tenderà a provare la rabbia dell’umiliato”.
Ristabilire la dipendenza è un atto riflessivo. “Per essere affidabili dobbiamo sentirci necessari”, dice ancora il professore della London School of Economics. La dipendenza reciproca costruisce la comunità e per spiegarlo ricorre a Paul Ricoeur: “Poiché qualcuno dipende da me, sono responsabile del mio operato di fronte all’altro”. Perché questo sia possibile, secondo il filosofo francese, “è necessario immaginare costantemente che c’è un testimone che vede tutto ciò che facciamo e diciamo, un testimone che non è un osservatore passivo, è qualcuno che confida in noi”. E se non fosse necessario immaginare, ma ricordare che questo testimone è presente?
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