Il vocabolario della Costituzione italiana è cambiato molto poco in 75 anni. L’unica parola veramente innovativa è stata finora “sussidiarietà”: inserita nel 2001 nell’articolo 118, non prima di un passaggio referendario. Una modifica come quella formalizzata ora dal Parlamento – riguardo l’integrazione nella Carta dei termini “ambiente” e “biodiversità” – merita quindi almeno qualche nota a margine.
Non vi può essere alcuna riserva sulla dignità costituzionale conferita ai valori dell’ambientalismo, dell’eco-sostenibilità, di una categoria pur complessa come la “biodiversità”. Un Paese fondatore dell’Ue – che ha modellato il suol recovery plan post-pandemia attorno alla strategia NextGeneration, fortemente radicata sulla transizione energetica e digitale – ha sentito il diritto-dovere di sancire l’evoluzione della sua civiltà socio-economica nella sua Carta fondamentale. I parametri di una grande democrazia come l’Unione europea non possono essere soltanto quelli della stabilità economico-finanziaria. Quindi, nessun “ma” sulla riforma lessicale della Costituzione, anche a sfidare qualche sospetto di strumentalizzazione politica (l’ambientalismo non è né può essere patrimonio ideologico/elettorale, dei Verdi di ogni latitudine, veri e soprattutto d’occasione).
Prendendo invece sul serio il maquillage della Carta deciso dal Parlamento subito a valle della rielezione del garante ultimo della Repubblica costituzionale, sembra invece opportuno qualche “se”.
“Ambiente” e “biodiversità” entrano all’articolo 9 della Carta: fra i principi fondamentali della Repubblica. Scelta ineccepibile: con l’auspicio che operi da rafforzamento e rilancio dell’impegno costituzionale di “promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” e “tutelare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Un tema quanto mai d’attualità quando il Governo, anzi il sistema-Paese, sembra in affanno sulla capacità di “mettere a terra” i progetti del Pnrr. Il nuovo articolo 9 sollecita tutti a uno sforzo collettivo (che non è certo quello di usare di più i monopattini), così come il “nuovo” articolo 118 continua a sollecitare tutti a cambiare i modi di essere di ciascun cittadino o formazione sociale nella all’interno della “cosa pubblica” (non le competenze più o meno minute fra lo Stato e gli enti locali).
Un secondo “se” è collegato e inevitabile laddove la modifica “ambientalista” della Carta investe l’articolo 41: quello che afferma “la libertà dell’iniziativa economica privata”. Il capoverso precisa che tale iniziativa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” ed è qui che verranno aggiunti due altri vincoli: “alla salute, all’ambiente”. In una Repubblica “fondata sul lavoro” è evidente che nessun morto “sul lavoro” è accettabile: che precipiti da un’impalcatura o che si ammali per un capannone non bonificato dall’amianto. Se però l’innovazione costituzionale verrà intesa e strumentalizzata in chiave vetero-ideologica o neo-populista contro i valori dell’imprenditorialità, c’è il rischio che si riveli una cattiva riforma.
Per questo – nel momento in cui è proprio l’articolo 41 oggetto di un raro ritocco alla Carta – sarebbe opportuno e forse doveroso cogliere l’occasione per dare rilevanza costituzionale a un’altra parola “Impresa”. “L’impresa è libera”. Se nel 2022 il secondo Paese manifatturiero d’Europa non ne è convinto – o se è convinto che la biodiversità sia più importante dell’impresa – può ritrovarsi su una strada pericolosa. Che arrivi o no la seconda rata degli aiuti europei. Che la fiammata inflazionistica si attenui o diventi un incendio.
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