Un adagio che ricorre con una certa frequenza nel tempo che stiamo vivendo vede tra gli effetti della diffusione del virus Sars-CoV-2 quello del ritardato accesso alle prestazioni sanitarie (quando non addirittura la rinuncia alle cure) per patologie diverse da quelle associate alla presenza del virus. Anche se per il momento non vi è ancora grande documentazione, almeno dal punto di vista quantitativo, di quali siano nello specifico le attività che hanno subìto le maggiori riduzioni (si parla in particolare di ricoveri non urgenti e di prestazioni ambulatoriali, con le preoccupazioni più frequenti che arriverebbero dall’area oncologica), segnali che il problema esiste ci sono e ne abbiamo parlato anche da queste colonne commentando le evidenze più recenti che ci vengono dalle elaborazioni prodotte all’interno del Piano Nazionale Esiti gestito da Agenas.
Da una parte emerge come il servizio sanitario del nostro paese durante il periodo caratterizzato maggiormente dalla presenza del virus abbia sicuramente ridotto le attività programmabili, le attività in elezione, a volte di più e a volte di meno ma in tutte (o quasi) le aree ospedaliere esaminate, con un interessamento anche di alcune attività d’urgenza (ricoveri per infarto miocardico acuto o per ictus ischemico), dall’altra non risulta ancora chiaro se questa riduzione delle (o ritardato accesso alle) attività sanitarie abbia prodotto effetti importanti in termini di incidenza di nuove patologie (non legate al Covid), di aumento della gravità di patologie già presenti, o addirittura di aumento della mortalità.
Partecipa alla discussione del problema anche il dibattito in corso in questi giorni su come definire (e quindi classificare e poi conteggiare) i pazienti Covid perché, al di là di argomenti che trovano motivazioni nella discussione della quota di soggetti che occupano posti letto di reparti che partecipano all’identificazione colorimetrica delle Regioni, è evidente che un’adeguata classificazione dei pazienti stessi è fondamentale al fine di una corretta descrizione dei fenomeni che abbiamo davanti e delle decisioni di politica sanitaria che devono conseguentemente essere prese.
Fa da sfondo a queste considerazioni la problematica dei tempi di attesa delle prestazioni, sia ambulatoriali che di ricovero, argomento che non nasce ovviamente con la diffusione del Covid ma che la necessità di far fronte alle urgenze (e non solo) poste dalla presenza del virus ha certamente aggravato, provocando l’allungamento dei tempi per ricevere le prestazioni se non addirittura la rinuncia alle prestazioni stesse.
Il tema è in sé complesso, tocca sensibilità e corde particolarmente eccitabili, trova origine in molteplici (e non sempre di semplice identificazione) cause e (nonostante le pretese di molti che sembrerebbero avere in tasca le proposte per venirne a capo) non si presta a facili soluzioni. Ma proprio per queste difficoltà intrinseche è per lo meno significativa, e merita quindi una segnalazione, la recente delibera di Regione Lombardia (DGR 5883 del 24 gen. 2022: “Misure per la riduzione dei tempi d’attesa. Approvazione del nuovo modello di remunerazione delle prestazioni”) che in un periodo come quello che stiamo vivendo avanza una proposta che ha proprio l’obiettivo di cercare di ridurre i tempi di attesa delle prestazioni sanitarie, almeno di alcune di esse.
L’atto di Regione Lombardia individua quale primo settore di intervento l’area dei ricoveri chirurgici oncologici, motivando la scelta (e dando con ciò ragione ai professionisti che più di altri hanno espresso il loro grido di dolore) in considerazione dell’impatto che gli stessi interventi comportano sulla cura dei pazienti. Quanto invece alla proposta specifica che deve essere attuata, essa consiste in un intervento di natura economica così concepito: “prevedere per le prestazioni relative ai ricoveri chirurgici oncologici, erogate dal 1 aprile 2022, un meccanismo di valorizzazione delle stesse finalizzato a garantire il rispetto dei tempi d’attesa con l’applicazione di progressive decurtazioni in relazione allo scostamento tra il tempo atteso e il tempo effettivo di erogazione della presentazione”.
In altre parole, in funzione del livello di priorità indicato dal prescrittore (entro 30, 60, 180 giorni, oppure oltre), la prestazione viene remunerata al soggetto che la eroga al 100% del suo valore tariffario se essa è erogata secondo i tempi di attesa previsti dalle deliberazioni di merito relative al Piano di attuazione dei tempi di attesa in vigore, ed applicando successive decurtazioni tariffarie sempre più elevate mano a mano che i tempi di erogazione si allontanano da quelli attesi. La tabella allegata alla deliberazione mostra come la decurtazione tariffaria possa arrivare fino ad una riduzione del 50% della tariffa piena. Il documento di Regione Lombardia prevede anche che con deliberazioni successive ed in relazione all’andamento epidemico la metodologia adottata possa essere estesa “ad altre aree di ricovero chirurgico, alla diagnostica per immagini, e alle prime visite”.
Abbiamo detto che l’argomento è complesso, e non è un caso che di questo tema non vi sia alcuna traccia all’interno del Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), ed a ciò aggiungiamo che la sfida, soprattutto di questi tempi, si presenta ambiziosa: riusciranno i nostri “eroi” a dare una svolta significativa (e positiva dal punto di vista del paziente) alle criticità che caratterizzano spesso i tempi di attesa delle prestazioni? Sicuramente qualcuno eccepirà (e qualche altro si è già espresso negativamente) che si tratta di un intervento esclusivamente economico, e come tale molto esposto al rischio di un possibile fallimento (o per lo meno a lasciare irrisolto il problema): la preoccupazione è in sé condivisibile, perché è bene ricordare che qualsiasi intervento programmatorio di tipo economico può dar luogo a comportamenti bivalenti, in quanto da una parte rappresenta un incentivo ad andare nella direzione prevista (in questo caso la riduzione dei tempi di attesa), ma dall’altra può portare alla adozione di atteggiamenti opportunistici di vario tipo (che alla fine non favoriscono la riduzione dei tempi di attesa).
È vero che non è la prima volta che per regolare l’accesso al Servizio sanitario regionale la Lombardia si mette sulla strada dell’approccio economico, un approccio che in molte situazioni e contesti in precedenza ha dimostrato tutta la sua efficacia proprio in terra lombarda, ma si deve anche aggiungere che l’intervento economico va normalmente accompagnato da iniziative sul lato del monitoraggio e del controllo delle prestazioni erogate, iniziative di cui per il momento non vi è specifica traccia negli atti approvati. Sarà importante perciò nei prossimi mesi osservare con attenzione come i diversi attori, pubblici e privati, interessati al provvedimento si muoveranno per metterlo in pratica.
Migliorare i tempi di attesa, mantenendoli all’interno dei tempi obiettivo stabiliti nei Piani di governo elaborati sia a livello nazionale che dalle singole regioni, non solo è auspicabile in sé per ragioni sia di efficienza che di efficacia dell’intervento sanitario, ma è un risultato che ogni amministrazione si deve impegnare a raggiungere: lo chiedono tutti i cittadini, ed è particolarmente necessario in questo periodo per evitare che al gravame provocato di per sé dalla presenza del Covid si aggiungano ritardi evitabili nell’erogazione delle prestazioni o addirittura (con l’eccessiva dilazione dei tempi di attesa) un incentivo alla rinuncia alle cure.
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