Qualche giorno fa ad Elche, nella provincia di Alicante – sudest della Spagna –, si è consumato un triplice omicidio. Padre, madre e bimbo di 10 anni sono stati uccisi con un fucile da caccia dal figlio maggiore della coppia, di 15 anni, per motivi non ancora del tutto chiari ma certamente legati al gesto forte della mamma che, per richiamare il figlio alle proprie responsabilità a scuola e in casa, aveva deciso di tagliare i cavi della connessione ad internet.

Per almeno tre giorni il giovane ha cercato di occultare la strage, trattenendo sotto il tetto familiare i tre cadaveri, per poi confessare candidamente l’accaduto ad una vicina che gli aveva chiesto dove fossero i genitori. Da lì la drammatica scoperta che ha sconvolto la regione, amplificata dalla freddezza e dall’apparente assenza di rimorsi che sembra caratterizzare queste prime ore di interrogatorio del ragazzo davanti agli inquirenti.

L’orrore di Elche racconta di un nuovo Caino che uccide per senso di ingiustizia e di invidia, per un odio profondo e imperscrutabile, smascherato dalla domanda sul “dove” sono gli altri esattamente come il Caino della Bibbia. E forse, più che nelle dinamiche del fatto che non conosciamo pienamente, è nella narrazione del primo omicidio raccontata nel libro della Genesi che dobbiamo cercare qualche intuizione che ci aiuti a capire.

La storia ci dice che Caino aveva fatto di tutto per piacere a Dio, eppure avvertiva che più si impegnava, più l’asticella della riuscita era spostata in avanti dalle azioni del fratello. Abele non si preoccupa di compiacere nessuno e offre a Dio quel che in dono aveva ricevuto nella terra e nel creato. Caino è oppresso da una misura che si è autoimposto, con cui legge le dinamiche relazionali attorno a sé: l’omicidio non è altro che l’abominio con cui egli prova a liberarsi dalla gabbia etica e mentale che lo stava schiacciando. Caino ha confuso la responsabilità con la prestazione e da questa confusione non ha più saputo uscire.

I nostri ragazzi ogni giorno respirano un clima di attesa e di pretesa che li porta a muoversi non nell’ottica della realizzazione di sé e della legittima ricerca della propria felicità, quanto nell’orizzonte di dover dimostrare e compiacere l’adulto. “Io non ce la faccio a far andare la vita come vorresti tu e so che per questo sono una delusione”. “Non posso sopportare di essere incalzato ogni giorno da quel che mi dici che per me diventa misura, specchio nefasto della mia incapacità”. “O la smetti o faccio fuori qualcuno”. A volte i genitori, a volte i fratelli, a volte se stessi.

La violenza nasce sempre dall’emergere di un’insopportabile misura nel rapporto con la realtà. Diventiamo mostri perché mostruoso è stato il laccio che ci ha tenuti avvinti alle cose e alle persone per gran parte della preadolescenza dove, senza che ci fosse detto esplicitamente niente, tutti abbiamo capito che saremo giudicati sulla nostra capacità di incarnare la vita che i nostri genitori ci chiedono e desiderano. Loro hanno smesso di voler conoscere il mistero che siamo e ciò che era segreto da comprendere è diventato oscurità. Parola di Caino, parola del ragazzo di Elche, parola di chiunque si affacci alla vita col fardello di una pretesa. Cosa che certamente non giustifica la violenza e la chiara responsabilità da punire e stigmatizzare, ma che pone agli adulti un problema difficile da evitare.

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