Nel discorso di insediamento lo scorso 3 febbraio, il Presidente Mattarella ha sottolineato che: “dobbiamo rilanciare l’economia con sostenibilità e innovazione”. Perché la ripresa economica del dopo pandemia sia sostenibile e duratura è sempre più evidente che l’innovazione, nei suoi vari aspetti, è un tema chiave per la crescita e lo sviluppo delle imprese e in generale del nostro paese.

Esistono tante tipologie d’innovazione: di processo e organizzative, di prodotto o di tecnologie, di mercato e dei modelli di business. Mentre le prime tipologie di innovazione sono essenziali per lo sviluppo economico, ma non necessariamente creano nuovi posti di lavoro (anzi in alcuni casi il miglioramento della efficienza dei processi e la crescita della produttività che ne deriva, porta ad una diminuzione di posti di lavoro) la tipologia di innovazione più rilevante emersa negli ultimi anni è l’innovazione dei modelli di business, che arriva fino alla cosiddetta “market creative innovation” dove si creano nuove classi di consumatori e/o mercati totalmente nuovi.

La storia economica degli ultimi 50 anni è piena di esempi di mercati che cinquanta anni fa proprio non esistevano: industria dei Pc, gestione del risparmio, linee aeree low-cost, e-commerce, Internet, social media, smartphone, etc.

Al di là dei “grandi classici” (che riprenderemo in seguito) come Airbnb e Uber, ci sono diversi esempi interessanti di innovazione del Business Model; Michelin ha iniziato già vent’anni fa a proporre forme di noleggio (anziché acquisto) pneumatici, che permettevano maggiori marginalità, più agio per il cliente, il tutto anche tramite una serie di servizi aggiuntivi al cliente (come consigli su guida e manutenzione, per aumentare la vita utile dello pneumatico). Tutti conoscono Netflix come operatore di streaming Tv, ma la vera prima innovazione di Netflix fu quando – in un mercato del noleggio video dominato da Blockbuster e altri player incentrati sulla location (anche come chiave di creazione di valore) – proposero il noleggio Dvd via posta, con un accordo con le poste americane e la scelta di titoli tramite una piattaforma online.

Anche con riferimento al Pnrr e al recente (21 dic. 21) decreto del Mise sugli Accordi per l’Innovazione, il focus principale rimane l’incentivo all’innovazione tecnologica, in particolare sulle cosiddette “Key Enabling Technologies”: materiali avanzati, fotonica, sistemi avanzati di produzione, tecnologie delle scienze della vita, intelligenza artificiale, connessione e sicurezza digitale.

L’innovazione tecnologica è sicuramente un aspetto molto importante ed è essenziale che le imprese aumentino gli investimenti nei prossimi anni anche per recuperare il divario significativo del nostro paese sugli investimenti in Ricerca e Sviluppo rispetto agli altri paesi europei (l’Italia investe solo 1,53% del Pil, inferiore alla media europea, e ben lontano da Francia e Germania che investono oltre il 3% del Pil).

Ma l’innovazione tecnologica, da sola, se non accompagnata dall’innovazione dei modelli di business, non è sufficiente per creare nuovi posti di lavoro e per sostenere una crescita economica che non sia jobless.

Ma cosa si intende per innovazione nei modelli di business?

Il tema del modello di business sta ricevendo crescente attenzione da parte di operatori e accademici da una ventina d’anni in particolare. L’attenzione al modello di business riguarda il “come” e il “perché” un’impresa fa ciò che fa, prima e più del “cosa” fa. Innovare il modello di business significa fare le cose in un modo nuovo e rispondendo a domande nuove anche, ma non necessariamente, facendo leva sull’innovazione di prodotto o di processo. Sicuramente le tecnologie digitali sono un fattore chiave imprescindibile per l’innovazione di modello di business, perché permettono capillarità, profilazione e scalabilità. Tuttavia il vero “cuore” è l’attenzione a dove si crea valore per tutti gli stakeholder dell’impresa, quali attività critiche vengono svolte dall’impresa ma anche da tutti i partner, i fornitori e persino clienti, in un approccio “sistemico”. Senza entrare nei dettagli dell’innovazione di modello di business, questo permette ad esempio a Uber di essere un player leader del settore “mobility” senza possedere un parco auto e di essere valutata in borsa nel 2018 quasi 70 miliardi di dollari (quando Ford, con un fatturato venti volte maggiore, aveva una valutazione della metà circa) e ad Airbnb di essere un player leader del settore “hospitality” senza possedere appartamenti e di essere valutata in borsa nel 2018 quasi 30 miliardi di dollari (quando la catena Hilton aveva una valutazione di circa 20 miliardi di dollari).

Innovare il modello di business significa cambiare almeno una dei seguenti quattro elementi di come un’impresa svolge il proprio operato: (i) il contenuto (cioè le attività, il “cosa”); la struttura (il legame sequenziale e concettuale tra queste attività, il “come”); la governance (“chi” svolge queste attività e come l’impresa riesce a spostare le attività meno strategiche su partner, fornitori e clienti, in una logica di win-win); la logica (dove viene creato valore e monetizzato, il “perché”). 

Molto interessante in questo senso la migrazione di Volkswagen, ispirata dalle mosse pionieristiche di Apple nel settore telefonia-entertainment, che ha lanciato un grande piano di investimenti nello sviluppo di auto elettriche e intelligenti. Non si è trattato solo di spostare la frontiera della competizione classica sul prodotto (basata su design, qualità, costi e performance), ma di spostare la competizione stessa su altri “campi da gioco”. Per il gigante tedesco, l’automobile è vista come una vera e propria piattaforma abilitante, di proprietà, per erogare software, servizi ed entertainment al cliente; insomma, una “esperienza” di fruizione dell’auto e dei servizi di mobilità totalmente nuova, che permette di creare valore, in particolare in due modi: direttamente, creando nuove fonti di fatturato, e indirettamente, ovvero avvicinando il cliente finale (ad esempio capendo in anteprima i bisogni o le opportunità legati allo stile di guida, o iniziando una manovra di bypass della classica filiera incentrata sui concessionari e i venditori di prodotti aftermarket).

L’affronto di questo tema, combinato con l’osservazione del contesto italiano, ci porta ad alcune domande. In primis, come si può sostenere l’innovazione dei modelli di business e la “market-creative innovation”? 

In generale queste tipologie di innovazione sono ad alto rischio (superiore al rischio delle altre tipologie) è quindi importante il ruolo di soggetti come i Venture Capital (o Private Equity) che forniscono alle imprese sia start-up, sia di medie-dimensioni i capitali di rischio necessari per sostenere l’innovazione del business e la creazione di nuovi mercati.  Gli investimenti di Venture Capital/Private Equity in Italia sono in crescita significativa (nel 2020 si è raggiunto 1 miliardo di euro) ma siamo ancora lontani dalle risorse dei paesi europei più virtuosi (in Francia, Germania e UK gli investimenti superano i due miliardi/anno). Per sviluppare ulteriormente il mercato sarebbe utile (secondo Aifi-Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital) migliorare il quadro normativo introducendo in particolare incentivi per l’uscita dagli investimenti da parte dei Venture capitalist e favorire allo stesso tempo l’acquisizione, della start up o della Pmi innovativa, da parte delle aziende corporate. Utile in questo contesto sarebbe un beneficio fiscale riconosciuto alle acquisizioni che potrebbero essere considerate come spese di ricerca e sviluppo.

Al di là della disponibilità di capitali, e forse anche come condizione per il loro impiego efficiente, ci sono alcuni temi legati alla dimensione umana, sociale e organizzativa. Iniziamo da tre. In primis, come spiegato da Amit e Zott (“Business Model Innovation, a Fundamentally new Source of Innovation”), l’innovazione del modello di business richiede innanzitutto un “mindset” capace di spostare l’attenzione dal “prodotto/servizio” al “sistema”: un approccio olistico (capace di considerare tutti i fattori e gli attori in gioco), tollerante e persino appassionato alla complessità, capace di fare osservazioni industry-spanning attraverso analogie. Un ruolo decisivo in questo è ricoperto dalla formazione: come il ripensamento richiesto ai sistemi di istruzione, specialmente universitari, può contribuire a creare individui orientati all’innovazione del modello di business? In secondo luogo, si tratta di un processo con una profonda natura relazionale: valorizzare relazioni esistenti, cercarne di nuove, capire i diversi punti di vista e le altrui logiche di generazione del valore. Come nascono queste relazioni, e cosa aiuta la persona a costruire, curare e valorizzare il proprio capitale sociale? Quali luoghi e ambiti aiutano imprenditori e manager a fare questo? Infine c’è un tema di tipo organizzativo: come porre l’accento su persone e processi orientati all’innovazione del modello di business, calmierando gli aspetti di rischio e inerzia organizzativa che molto spesso limitano lo spazio per nuove idee e sperimentazioni, dentro ad organizzazioni piccole e grandi?

Speriamo che questo contributo offra un iniziale spunto per un dibattito e, perché no, una raccolta di casi “tipicamente” italiani: molti già ce ne sono (es. il caso Mooney), molti altri se ne possono scoprire e crediamo che la lista di “sfide imprenditoriali e manageriali” (nonché di policy) sopraccitata si potrà allungare. Saremo felici di continuare un confronto sul tema.

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