Bonaccini e Zaia si sono incontrati a Venezia pochi giorni fa nello splendido scenario di Palazzo Balbi, con tutta la solennità di due governanti che si omaggiano, per discutere del tema per loro più importante. Non le piste ciclabili per unire le due Regioni, ovviamente, bensì per lanciare un ultimatum a Draghi. L’agenda del Governo, secondo loro, deve ripartire dall’autonomia differenziata e avviare un percorso di gestione bilaterale della devoluzione di poteri dallo Stato alle Regioni. Entrambi sono esponenti di governo, hanno tenuto a precisare, sia come presidenti delle loro Regioni, sia perché alleati a Roma, e per questo chiedono al ministro Gelmini delle risposte in poche settimane. Hanno citato Draghi tirandolo per la giacca, usando come monito le parole di Mattarella pronunciate il giorno del suo insediamento. Durante il discorso, secondo Zaia, il presidente avrebbe addirittura dato il suo assenso al percorso delle autonomie, solo perché avrebbe citato le Regioni come attrici in positivo nel corso dell’emergenza pandemica.
Lo stile risoluto delle affermazioni, e la solennità che hanno voluto dare all’incontro, raccontano quanto ancora navighi sotto traccia il tentativo di far ripartire la corsa all’isolazionismo dei presidenti di Regione, avidi di risorse e competenze, e speranzosi di costruirsi ognuno a casa sua il feudo più potente. E come questo percorso sia ormai l’unico orizzonte politico del regionalismo: accrescere un pezzo di Paese e pensare di essere autonomi slegando le proprie sorti da tutti gli altri. Rompere ogni vincolo istituzionale di unità del Paese, per far emergere una sorta di solidarismo peloso da spacciare come condivisione, ma da rivendersi in casa propria come piccola mancia ai poveri. Ma Zaia dovrebbe ricordare da veneto le parole di Foscolo, che combatté con Napoleone sognando Venezia libera, per poi vederla venduta in poco tempo agli austriaci. Ci vollero morti e decenni affinché il Veneto fosse riunito ed il trattato di Campoformio stracciato.
L’autonomia sembra sempre un bene a chi la rivendica. In realtà è un ridurre, dividere e chiudersi in confini che spesso ricalcano quelli delle proprie paure, del propio egoistico senso di sicurezza. Ma nessuna entità minore può sperare di essere davvero libera ed autonoma nella storia. In tempi di crisi energetica galoppante, di tensioni internazionali, di piani sovranazionali per la crescita, l’autonomia sembra davvero il più inutile dei danni che il Pese può subire.
Su questo Draghi ha il dovere di fare chiarezza. Nelle ultime settimane mostra una stanchezza nel governare i processi politici che è figlia della corsa inutile verso il Quirinale che alcuni avevano immaginato per lui. Il Paese sa che si rischia una devastante crisi sistemica con riflessi che vanno ben oltre le sue sorti personali. I partiti sono concentrati a sopravvivere alla prossima tornata elettorale, la magistratura è dilaniata, monca, rabbiosamente in difesa delle sue prerogative, il sistema economico è minacciato dalla crisi energetica, i cittadini, stanchi della pandemia, stanno affrontando un lungo periodo dì riadattamento ad una realtà diversa da quella di due anni fa. Tutti devono essere consapevoli che non ci sarà nessuna restaurazione.
In questi anni è cambiato il sistema economico, ormai nelle mani solo della finanza, e sono cambiati i rapporti dì forza interni tra poteri dello Stato. Le diverse debolezze si stanno sommando e il risultato è che nessuna componente sociale riesce a trainare le altre. Il momento è delicato, Draghi ha il dovere di essere leader pieno e senza tatticismi e di assumere la guida e trovare risorse anche oltre i partiti. Non deve garantire a nessuno nulla ma dare il meglio al Paese. Sa bene che la maggioranza del Parlamento gli voterà ogni fiducia e che potrà utilizzare le giuste scorciatoie che servono per attuare le scelte migliori. Ma non può pensare dì avere a suo supporto i partiti che sono, di fatto, già in fase dì scomponimento e ricostruzione alla ricerca dì scranni elettorali.
Deve, insomma, approfittare del vuoto per riempirlo e mettere in agenda dodici mesi rivoluzionari e temerari come lo furono quelli dei Ciampi o, per tornare alla Storia, quelli di De Gasperi. Tutti hanno il dovere di ritrovare la dignità dei propri ruoli cambiando atteggiamento e strategia. Comprendendo che il Paese rischia davvero la disgregazione se non riprende la strada imboccata fino a novembre dello scorso anno. Draghi può e deve guidare questo processo con autorevolezza e forza. Partendo proprio dal dire con chiarezza che il suo Governo non ha in agenda alcuna autonomia differenziata e che le priorità del Governo restano quelle già tracciate, ovvero il superamento delle differenze territoriali, la promozione della formazione e del lavoro, la maggiore inclusione delle donne nella vita produttiva del Paese. Lasciando a Zaia a e Bonaccini le dichiarazioni dì Palazzo Balbi, da trattare come gli accordi dì Campoformio.
Draghi la storia la conosce, per averla già fatta in parte; ora tocca a lui dimostrare che la fiducia del Paese, che ancora ha, è in buone mani.
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