La brusca impennata del prezzo del petrolio al deflagrare della crisi ucraina è nemesi e monito; ma anche indicazione storica di direzione. Cinquant’anni dopo lo shock petrolifero – nato da una crisi geopolitica con effetti socioeconomici globali di lunga durata – l’Occidente si ritrova a fare i conti con rubinetti energetici non occidentali prosciugati e trasformati in armi. I prezzi del gas russo sono alle stelle già da un semestre: da quando Vladimir Putin ha concepito una specifica exit-escalation russa dalla pandemia, minacciando le già difficili prospettive di recovery in Europa.

Negli ultimi quattro decenni lo sviluppo dell’utilizzo del gas è stata una delle risposte alla “megasanzione” decisa contro l’Occidente dai paesi produttori di petrolio dell’area arabo-islamica, dopo quattro “guerre dei confini” combattute in Palestina E dopo la proclamazione dello Stato di Israele. Le sanzioni deliberate ieri dalla Ue contro la Russia ricomprendono – nella sostanza geoeconomica – l’ “autosanzione” di una fiammata inflazionistica analoga a quella che devastò Usa ed Europa negli anni 70 (in Italia il picco si registrò nel 1980, con un +21% annuo).

Sebbene molti attivisti verdi non vogliano riconoscerlo, la cultura dell’energia pulita affonda le sue radici in quella crisi, fra guerra e pace. La consapevolezza degli effetti gravemente inquinanti dei combustibili fossili matura e si afferma quando il petrolio – motore di un secolo di boom industriale – diventa improvvisamente costoso: quando l’innovazione energetica diventa un imperativo politico-economico per le democrazie di mercato.

In quegli anni, in realtà, un’alternativa tecnologica al greggio esiste già ed è il nucleare.  Ma si tratta di una fonte d’energia ancora pericolosa e inquinante soprattutto in termini politici per la sua origine intrinsecamente militare. Cinquant’anni dopo è ancora così? La Francia – che non ha mai abbandonato il nuclerare – sostiene che una produzione sicura e pulita oggi è possibile: e sollecita l’Europa a seguirla, a orientare in quella direzione la transizione eco-digitale già posta alla base del NextGenerationUe e quindi rimodellata nel Recovery Plan.

I Paesi Ue (anzitutto Italia e Germania) sono dunque a un bivio: culturale e politico. Che vale anche – in chiave specificatamente italiana – per lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini nell’Adriatico. Il no alle trivelle è stato anche un cavallo di battaglia della campagna “obamiana” con cui il presidente Usa Joe Biden ha sconfitto Donald Trump. La politica americana pare quindi chiamata a mediare fra due imperativi: la difesa dellA democrazia in Ucraina e la sicurezza energetica dell’economia nell’area Nato.

Le azioni di breve periodo, nel frattempo, non possono lasciare in ombra le direttrici strategiche di lungo periodo. Nel ventunesimo secolo l’Occidente può contare su una capacità di ricerca e sviluppo assai più grande ed efficiente di quella dispiegata al tramonto del secolo ventesimo. Le risposte della scienza, dell’impresa, dei sistemi di governo nazionali e internazionali alla pandemia ne sono stati buona verifica. Gli investimenti di base nelle energie alternative sono già massicci: vanno completati e fatti rendere più velocemente.

Nel frattempo la Germania, ieri, ha annunciato l’abbandono (almeno temporaneo ma certamente doloroso e simbolico) del Nord Stream 2: la grande infrastruttura concepita e realizzata nell’ultimo ventennio quando il gas sembrava coniugare una fase storica nuova, anzitutto nei rapporti secolari fra Russia ed Europa. Se l’Europa “occidentale” pretende di vincere l’ennesima “confrontation” ingaggiata dalla Russia “imperiale” non può che dimostrarlo sul piano politico, scientifico, economico.

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