Da un paio d’anni si stanno sperimentando in varie città e scuole progetti di potenziamento delle competenze che vengono chiamate “non cognitive” (come ad esempio capacità di collaborare, apertura mentale, fiducia nell’affrontare le difficoltà). Il nome usato dà modo di equivocare che si tratti di competenze contrapposte a quelle “cognitive”, mentre invece, le integrano e le potenziano.

Molti parlano di queste dimensioni in modo impreciso o che si presta a equivoci, come di un cavallo di Troia per una scuola più facile e disimpegnata, che trascura la trasmissione del patrimonio culturale.

L’esperienza ci dice che non si tratta di aggiungere una nuova “materia” alle molte che già ci sono, né di mettere in pagella un voto di autocontrollo o di stabilità emotiva, né di introdurre surrettiziamente un condizionamento a conformarsi piattamente alle richieste della società. Ci sarà piuttosto, nei docenti, una maggiore attenzione a favorire la crescita, parallelamente alla trasmissione di conoscenze, di una serie di attitudini, di tratti della personalità, che possono contribuire non alla standardizzazione o alla creazione di persone secondo modelli imposti, come qualcuno ha scritto, ma allo sviluppo del pensiero critico e della persona nella sua interezza, e quindi alla sua maturazione.

Ricerche e sperimentazioni hanno evidenziato che queste competenze, chiamate anche “tratti di personalità”, si sviluppano nella prima infanzia, nella famiglia e con gli amici, creando disuguaglianze e diversità di cui la scuola deve essere consapevole perché ha il compito di attenuarle o rimuoverle (le prime), piuttosto che di accettarle (le seconde), collegando equità e qualità.

Non a caso, in tutto il mondo, l’attenzione alle competenze “non cognitive” porta un miglioramento di quelle cognitive, e una diminuzione degli abbandoni scolastici perché la scuola si fa più attraente e interessante quando si fa attenzione alla personalità dello studente nella sua complessità: crescono infatti autostima e motivazione ad apprendere. Anzi, nei progetti che valorizzano competenze di tipo non tradizionale, spesso spiccano ragazzi che, nella normale pratica scolastica, sono nella media o addirittura fra i meno brillanti, o sono reduci da precedenti fallimenti.

Sostenere che la cultura possa essere acquisita in modo libero e spontaneo e, tutto sommato, misterioso, è al fondo deresponsabilizzante, perché questa spontaneità nasce invece all’interno di una relazione che punta sulla curiosità, sul desiderio di esplorare, sull’atteggiamento positivo nei confronti degli altri e delle cose. Contemporaneamente si impegna anche a trasmettere gli strumenti per farlo: il linguaggio, il pensiero logico e matematico, la conoscenza delle scienze, delle arti, del pensiero storico e filosofico.

Il buon senso di molti insegnanti, se non è appiattito dall’ottusità burocratica, ha sempre collegato il risultato all’impegno e alle caratteristiche personali, riconoscendo così l’esistenza di elementi non quantificabili che però incidono pesantemente sugli apprendimenti.

E oggi, quando due anni di isolamento hanno minato la fiducia dei ragazzi in se stessi e negli adulti, accrescendo lo scoraggiamento, l’incertezza, il senso di precarietà, la dipendenza dai dispositivi digitali, riteniamo che non basti la scuola di Atene, con i suoi filosofi e scienziati, ma serva una scuola capace di far crescere la capacità progettuale e creativa dei ragazzi, passando dalle materie scolastiche, ma anche valorizzando i luoghi dell’apprendimento informale in cui vivono, e di far loro (ri)acquistare l’amore alla scuola e, solo così, alla cultura.

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