Può sembrare non più prioritario o addirittura fuori luogo ragionare di smart working (Sw) dopo lo scoppio della crisi ucraina: o forse no. Può essere una coincidenza che la Russia abbia scatenato la guerra in Europa quando i Paesi Ue stavano accelerando la recovery archiviando le restrizioni imposte dal Covid venuto due anni fa dalla Cina. O forse non è accaduto del tutto per caso.
A fine marzo, comunque, si concluderà il lungo stato d’emergenza che ha imposto anche a milioni di italiani di lavorare in remoto. Non pochi hanno continuato a farlo ininterrottamente dal marzo 2020: all’ombra di norme-decreto, ma anche di accordi fra le parti sociali. Tutto era d’altronde inteso in vigore fino “al ritorno alla normalità”: che – due anni dopo – è un new normal ancora assai poco normale e subito incalzato da nuove minacce socioeconomiche, laddove quelle geopolitiche hanno sostituito quelle sanitarie.
Al netto dell’improvvisa escalation fra Russia e Ucraina, lo scenario Sw si presentava delineato. lI Governo (soprattutto un esecutivo istituzionale di larghe intese) era orientato a non intervenire in prima battuta sul “lavoro agile”, lasciando invece alle parti sociali (fra cui la stessa Pa) di trovare punti d’approdo. Era chiaro – e in gran parte lo resta – che all’opposto dell’emergenza Covid una ri-disciplina strutturale del mercato del lavoro indotta dallo sviluppo dello Sw necessita di input più consolidati e leggibili, anzi: ha bisogno che imprese e lavoratori e loro organizzazioni di rappresentanza chiariscano posizioni e istanze che non sembrano ancora effettive.
È già evidente – nel fenomeno delle cosiddette “Grandi Dimissioni” – che molti lavoratori dipendenti hanno maturato un atteggiamento diverso verso la flessibilità e il rischio, a fronte di un maggiore apprezzamento della padronanza del proprio tempo. Non è un mistero che sul fronte-imprese i due anni di pandemia abbiano funzionato da laboratorio decisivo per il collaudo di nuovi modelli organizzativi. E il matching tendenziale fra queste due dinamiche ha probabilità di rivelarsi win-win anche a livello più collettivo: basti pensare agli impatti favorevoli sulla sostenibilità ambientale di un’economia meno vincolata ai luoghi fisici e agli spostamenti. Non per nulla la doppia transizione – digitale ed energetica – è l’asse portante del Recovery Fund Ue, modulato in Italia dal Pnrr. E la crisi geopolitica ha ora soltanto la funzione di rendere ancor più strategico l’imperativo “più digitale, più efficienza energetica”.
È chiaro che il punto di sintesi di ogni mercato è il prezzo: che nel caso dello Sw sarà un mix complesso e innovativo di componenti finanziarie, modalità professionali/organizzative e cornici di tutele e welfare. Non è facile predire quale sarà l’esito di un confronto che si annuncia come una nuova concertazione a tre. È invece sicuro che un passaggio ben gestito potrà guidare l’Azienda-Italia a una “transizione socioeconomica” di per sé sfidante e non evitabile.
La storia contemporanea è ricca di momenti virtuosi (la ricostruzione del dopoguerra e l’accordo del 1993 prodromico all’ingresso dell’Italia nell’euro), ma anche di precedenti preoccupanti. Lo shock petrolifero, nei primi anni ’70, produsse un’iperinflazione che fu malcurata nei sintomi dalla “scala mobile” e non evitò al Paese, fra l’altro, i traumi del terrorismo interno. L’Azienda-Italia ne riemerse solo mutandosi in tessuto diffuso di imprenditori fino ad allora “sommersi”. Lo smart working in tempo di guerra può essere un’arma di autodifesa ancor più importante che in tempo di pandemia o di “pace normale”. Che normale purtroppo non è mai.
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