All’angolo tra Ridge Boulevard e la 68th Street, Brooklyn, New York City. Un palazzone di quelli squadrati, un cubo color mattone, pieno di appartamenti. Ogni mattina sulla strada per andare alla stazione del metrò mi cadeva lo sguardo su una targa di metallo un po’ arrugginita, in alto sul fianco dell’edificio, ma ancora ben visibile: “Atomic Shelter – in the basement”, rifugio atomico nello scantinato. Curiosamente sinistro per me, nato e cresciuto in Italia, ma non per i baby boomers, gli americani nati tra il 1946 ed il 1964, cresciuti in compagnia di questo pensiero fisso e a suon di infiniti “duck-and-cover drills”, quelle specie di esercitazioni antiatomiche che si facevano a scuola rifugiandosi sotto il banco con le braccia a protezione della testa.
Sono tempi lontani che sembrano ancora più lontani perché nessuno ha intenzione di riandarci neanche col più vago pensiero. Chi può amare il pensiero che in un attimo si ribalti tutto il mio mondo senza che io possa farci niente?
Per questo la gente d’America sa benissimo che sì, c’è una guerra in Europa, una guerra che infuria nel mondo d’occidente. Sa anche che si tratta di una guerra ingiusta e crudele come le guerre sanno essere, ma l’Europa sembra molto lontana, mai stata cosi lontana, perché quella guerra bisogna tenerla lontana. La guerra c’è, la sopraffazione c’è e qualcosa bisogna fare per lenire il dolore che tutti, non solo il milione o poco più di americani di radice ucraina, avvertono per il martirio di un popolo. Fare qualcosa per lenire il dolore e anche per coprire quel senso di vergogna che viene dall’impensabilità di intervenire sul campo. Perché poco o tanto quel senso di vergogna, quasi di colpa, penetra tutti e non solo gli oltre tre milioni di russi che vivono qua. Le immagini della prepotenza di Putin e della sua Russia, la vecchia nemica di sempre, le immagini della via crucis della gente, le immagini che entrano in tutte le case e mettono addosso il dolore lacerante di una ferita che nessuno sa come curare e di un peccato di omissione che nessuno sa come lavare.
Siamo appena usciti, malamente, miseramente, ingloriosamente, dall’Afghanistan, possiamo forse seriamente pensare ad un intervento militare in Ucraina contro la Russia con gli scenari apocalittici che provocherebbe? Eppure c’è chi lo vorrebbe, chi lo invoca magari a mezza voce in nome della giustizia, della libertà e di quel ruolo divenuto ormai da tempo appannato ricordo degli Stati Uniti come polizia del mondo.
Come scriveva nel 2014 sul Washington Post Henry Kissinger proprio a proposito di questa contesa terra di mezzo (ma profondamente europea), all’inizio del conflitto (perché è dal febbraio 2014 che il braccio di ferro tra Ucraina e Russia si trascina), “Nella mia vita ho visto quattro guerre cominciare con grande entusiasmo e con l’appoggio dell’opinione pubblica, cominciate senza sapere come finirle e da tre delle quali ci siamo ritirati unilateralmente. La verifica di un’azione è nel come finisce, non nel come comincia”.
Basta guerre nostre, ma cosa facciamo di quelle altrui? Ecco allora gli aiuti materiali al popolo ucraino, ecco le pesanti sanzioni economiche contro Putin, provvedimenti che tutti approvano e che in qualche misura ridanno un briciolo di fiato e credibilità all’Amministrazione Biden che recupera qualche punto nell’approval rate. Tutti approvano, sebbene queste azioni in termini monetari costino caro ad ogni cittadino americano, con un’inflazione che in questi primi mesi del 2022 viaggia ad un tasso record del 7,9%, ed un costo del carburante che ha già superato le punte del 2008. E tutti plaudono alle grandi aziende statunitensi che sospendono le operazioni sul territorio russo, dalla Coca-Cola alla Pepsi, gli Hilton Hotels, la Disney, Starbucks, Procter and Gamble, Ford, American Express, Visa, e tante altre fino a Papa John’s con i suoi 186 franchise stores e McDonald che di stores ne ha 850 e che continuerà a pagare i suoi 62mila dipendenti nonostante la chiusura.
Ma attraverso tutto questo guardiamo alla guerra in Ucraina come dai bordi del campo, come una tragedia che ci addolora, ma ci riguarda solo fino ad un certo punto, una tragedia che ferisce la nostra sensibilità, ma che non ci chiede niente, un dramma che vogliamo tenere a distanza di sicurezza. Nessuno vuol pensare di dover andare a rinfrescare la pittura di quella targa di metallo all’angolo tra Ridge e 68th Street.
Forse questo scenario di impotenza della grande America e di tutto il mondo occidentale diventa tempo propizio a domandarci cosa questa guerra chieda non solo o tanto al mio paese, ma a me.
God Bless America!
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