È impossibile in questi giorni evitare un continuo stato di ansia per quanto sta avvenendo in Ucraina. Senso di destabilizzazione e paura che si innestano sulla già difficile situazione emotiva dovuta ai due anni di pandemia. La salute mentale di noi occidentali è però messa alla prova in modo “strutturale” anche da una tendenza in atto ormai da decenni, che sacrifica il benessere personale a vantaggio dello sviluppo economico.

Il fenomeno, registrato nell’ultimo anno, dell’impennata di cessazioni di rapporti di lavoro da parte di persone con contratto stabile è solo l’ultimo indicatore del problema.

La cessazione volontaria di un contratto di lavoro a causa di burnout o stress da lavoro ha portato negli Usa al 2,4% di dimissioni sul totale dei lavoratori nel marzo 2021. In Italia sono un milione e 81mila le persone che hanno lasciato di propria iniziativa il posto di lavoro nei primi nove mesi del 2021.

Un rapporto dell’Ocse del 2014 prevedeva, d’altra parte, che la metà della popolazione avrebbe sviluppato, ad un certo punto della vita, una malattia mentale, con effetti negativi sulla sua produttività, sul salario e sulla possibilità di trovare lavoro.

In questo contesto il lavoro precario, inteso come un impiego caratterizzato da alta incertezza, basso reddito e ridotte prestazioni sociali, gioca un ruolo primario nella diffusione dei disturbi psichiatrici.

Come documentato anche da due rapporti dell’Ilo del 2011 e del 2012, l’instabilità occupazionale è emersa all’inizio degli anni 80, quando la percentuale di individui impiegati in lavori flessibili, con quote nel tempo crescenti di part-time involontario e lavoro temporaneo, è aumentata costantemente in tutti i paesi occidentali.

Una ricerca del 2016 (“The impact of precarious employment on mental health: The case of Italy”, di F. Moscone, E. Tosetti, G. Vittadini, Social Science & Medicine 158 86-95) ha indagato l’impatto del lavoro precario sulla salute mentale, utilizzando un ampio set di dati che contiene le informazioni sui contratti di lavoro per oltre 2,7 milioni di dipendenti e oltre 13 milioni di prescrizioni di farmaci psicotropi. Il lavoro esamina il nesso tra contratti temporanei, la loro durata e il numero di cambi di contratto durante l’anno, e la probabilità di avere una o più prescrizione di farmaci per il trattamento di problemi di salute mentale. I farmaci analizzati sono antidepressivi, stabilizzatori dell’umore e antipsicotici contemplati nel Manuale diagnostico dei disturbi mentali, prescritti da specialisti a lavoratori di qualunque tipo per trattare i principali disturbi psichiatrici.

I risultati mostrano che la probabilità di prescrizione di questi farmaci è più alta per i lavoratori sotto contratto di lavoro temporaneo. In altre parole, più giorni di lavoro sotto contratto a termine e con frequenti cambiamenti di contratto temporaneo aumentano significativamente la probabilità di sviluppare problemi di salute mentale che devono essere trattati medicalmente. Non solo: anche passare da un lavoro permanente a uno temporaneo aumenta il disagio mentale. Simmetricamente, passare da un’occupazione temporanea a una permanente tende a ridurla, per tutti i gruppi di età.

È interessante anche osservare che il numero medio di cambi di contratto dopo il passaggio da permanente a temporaneo è più alto per i lavoratori che sviluppano un episodio di disturbo mentale, anche se il numero di giorni lavorati è più o meno lo stesso. Questo risultato sembra corroborare l’ipotesi che uno stato di sofferenza psicologica, che si verifica dopo un passaggio verso una situazione di precarietà, abbia a sua volta un impatto sulla precarietà futura.

Infine, se in media è più raro per i lavoratori più anziani passare da un contratto a tempo indeterminato a uno a tempo determinato, quando questo avvenga, è più facile che tali lavoratori debbano ricorrere a farmaci psicotropi.

Tutto ciò porta a concludere che gli interventi volti ad aumentare la flessibilità del mercato del lavoro, attraverso un aumento di contratti temporanei, dovrebbero prendere in considerazione il costo sociale ed economico di queste riforme, in termini di benessere psicologico dei dipendenti. Da questo punto di vista appaiono auspicabili i meccanismi introdotti negli ultimi anni per incoraggiare i datori di lavoro a trasformare i contratti precari in contratti permanenti, per esempio, attraverso incentivi finanziari.

Introdurre leggi e regolamenti appositamente progettati per alleviare lo stress della salute mentale, causato dalla precarietà, potrebbe non solo migliorare la salute dei lavoratori, ma anche aumentare la produttività delle imprese, con un impatto sull’economia in generale. Dal punto di vista della salute pubblica, sarebbe anche importante progettare campagne di prevenzione dei problemi di salute dovuti all’instabilità del lavoro.

Una volta di più la scellerata contrapposizione tra interessi dell’economia e diritti delle persone, propria del liberismo sfrenato volto a un miope profitto, mostra la sua poca lungimiranza, non solo per il lavoratore, ma anche per un equilibrato sviluppo economico.

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