Un mese di guerra sul suolo europeo. La telefonata di un amico è emblematica: dopo anni di sacrifici e di risparmi per ristrutturare casa chiede se ha senso cominciare i lavori ora, “quando potrebbe arrivare la guerra a distruggere tutto”. Gli fa eco un universitario venticinquenne, che da un po’ di tempo ha deciso di intraprendere il percorso di trasformazione da maschio a femmina, e che adesso si trova impietrito dalla paura che “le bombe rendano vano tutto”. Anche l’amica che ha cambiato città, perché continuava a non trovarsi bene con le persone del luogo, è sconsolata: “adesso che stiamo costruendo finalmente una comunità questo conflitto mi inquieta”.
Ciascuno di loro – ciascuno di noi – ha potuto toccare con mano come si è sentito in questo mese dinnanzi al rombo di tuono proveniente dall’Ucraina, che cosa lo abbia sorpreso. In tanti abbiamo provato paura, terrore che il conflitto – proprio come il Covid – arrivasse presto qui a portarsi via tutto il nostro mondo.
Eppure le nostre vite erano state costruite molto bene: matrimoni, conti correnti, diritti civili, amicizie, lavoro, compagnie… tutto era stato pensato per proteggerci dall’urto della vita, dal dramma dell’esistenza che chiede al nostro cuore di non stare fermo e di prendere posizione dinnanzi alla realtà.
Poi è arrivata la guerra e tutto quello che avevamo messo in piedi, tutto quello che avevamo pazientemente allestito, non è servito a salvarci dalla paura, non ci ha risparmiato l’urto con il reale. E questo – ciascuno di noi può verificarlo – è già un giudizio su quanto è accaduto, più efficace di ogni telegiornale, più convincente di ogni dibattito: niente di quello che facciamo noi ci può mettere al sicuro dalla vita che incombe e che irrompe.
Ma, allora, che cosa possiamo fare? Dove guardare? Ahmir è un ragazzo di Chernovtsy, una piccola città dell’Ucraina a pochi chilometri dal confine romeno, che ha trascorso in Liguria qualche giorno per un progetto internazionale. L’amicizia con lui nasce per uno strano orecchino che porta al naso e che diventa oggetto di discussioni e battute. Il giorno della sua partenza Ahmir rivela che non vuole tornare a casa e lo fa con una domanda che lascia tutti di stucco: “Che cosa ci guadagno io dalla guerra?”.
La domanda di questo ragazzo non manifesta la ricerca di un profitto economico, ma il desiderio di capire se è possibile che l’esperienza umana possa fiorire e diventare positiva perfino dinnanzi alla morte e al degrado di questo mese. Il conflitto ha messo a nudo la nostra tentazione di ripartire sempre da quello che posso fare io, da una mia iniziativa rispetto alle cose e alla vita. Eppure, se niente regge perché tutto può essere spazzato via, quello che rimane – allora – deve essere ciò da cui ciascuno può ricominciare. Non basta aver ricevuto la fede, non basta aver fatto un incontro: se in questo incontro l’io di ciascuno non si gioca, se la persona non scommette sulla fede come ciò da cui ripartire, a prevalere sarà sempre altro, sarà la dialettica su chi ha ragione o torto, sarà il dibattito sul da farsi. Questo dinnanzi alle bombe come ad un matrimonio che finisce, alla perdita di un lavoro o ad un momento di crisi personale: se l’io non prende in considerazione la fede come ipotesi da cui ripartire, tutto il cammino fatto e le intuizioni avute restano inutili perché – alla prova dei fatti – ciò che prevale è altro.
Ma se quello che prevale è altro, sia la politica o la strategia, l’eroismo o l’accondiscendenza borghese, allora la domanda di Ahmir non ha risposta, non è possibile guadagnare umanamente niente non solo da questa esperienza, ma dall’esperienza in generale. Tutto, perfino il dolore più grande, la malattia o la morte, possono essere un nuovo inizio. Se si scommette sulla fede, su una Presenza che attende solo di essere guardata e riconosciuta.
Possiamo avere gli occhi pieni di paura e di violenza. Oppure possiamo cedere ad un’Altra cosa che entra nel nostro orizzonte e che porta con sé la promessa di cambiare tutto. Seguire quest’Altra cosa, o voltarLe le spalle, è in fondo la grande scelta di ciascuno, ciò su cui si misura se in fondo a tutto c’è qualcosa che tiene. Qualcosa che rimane.
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