MINNEAPOLIS – Sono 7.500 kilometri da Kiev a New York City, terra e mare, un grande oceano di mezzo e non solo. Anche se siamo nell’era delle comunicazioni istantanee nell’attraversare quell’oceano, le notizie che giungono dall’Europa, quelle che non possono non farcela ad arrivare, lungo il cammino da un continente all’altro si rarefanno. Persino le immagini della guerra sbiadiscono e perdono la loro drammatica irruenza. E poi man mano che dalla costa ci si muove verso il cuore del paese, come attraversando i 2mila chilometri tra New York e Minneapolis, di quelle notizie e di quelle immagini sembra restare solo un’eco lontana che fatica a smuovere l’anima. Soprattutto se l’anima non vuole ascoltare.
Il Presidente Biden è arrivato nel vecchio continente per discutere con tutti i capi del mondo occidentale come fronteggiare la crisi, quali drastici provvedimenti prendere nei confronti della Russia, ma qua se ne parla poco, come si volessero evitare brutti pensieri. Quel poco che si dice tra la gente è che Biden recita la sua parte per sdoganare (almeno come immagine) qualche impegnativa promessa elettorale quale il ripristino della leadership americana a livello internazionale e la “manutenzione” di alleanze deboli e incerte con i partners europei, partners economici e militari. Una manutenzione resasi indispensabile dopo che maldestre e presuntuose strategie Nato hanno se non altro contribuito ad innescare la miccia della follia di Putin.
L’agonia della terra di Ucraina e della sua gente resta lontana e anche il piano dell’Amministrazione di accogliere con procedure spedite 100mila profughi viene letto più come un atto dovuto che un gesto di autentica solidarietà umana. L’America continua nella sua confusa politica internazionale tra presunzione e generosità, senza più la prepotenza di un tempo (troppe sconfitte per fare i prepotenti), ma anche senza la consapevolezza della capacità di bene che ha in sé. Quanti americani sanno che il loro paese ha appena offerto ospitalità ad 800mila profughi afghani figli di una insensata guerra trascinatasi per vent’anni?
Ma se le bombe di Mariupol sono lontane, se la guerra in Afghanistan è un dramma che ci si sforza di dimenticare, la violenza quotidiana in questo mondo di qua dell’oceano c’è e grida così forte che non la si può ignorare. Anche qui siamo in guerra, anche noi abbiamo la nostra guerra. Una guerra diversa dove non sono gli edifici ad essere squassati dalle bombe, ma gli esseri umani che faticano a vivere e a trovare il senso di tutto.
L’America è reduce da un ennesimo “tranquillo weekend di paura”, con nove mass shootings, da Norfolk in Virginia a Dumas, Arkansas, ad Austin nel Texas. A Miami Beach è stato dichiarato lo stato di emergenza per cercare di arginare le sparatorie scatenatesi durante lo spring break, la vacanza di primavera. Si spara per un niente, lasciando una scia di sangue con morti e feriti che non dovrebbero esserci. Come in guerra.
Il coronavirus, che si è preso quasi un milione di americani, scivola via dalle prime pagine dei giornali (e nessuno ne vuol più sentir parlare), ma i suoi effetti a lungo termine restano. Il senso di insoddisfazione, insofferenza, incertezza, di smarrimento, di disordine interiore e sociale che due anni di pandemia hanno generato pesano sulla vita quotidiana e mettono a nudo una fragilità che già covava, ma che era più facile da mascherare nell’ordinaria ed innocua routine della vita quotidiana. Violenza e crimine – come ultimo, disperato e tragico tentativo di affermare se stessi – guadagnano terreno nel cuore e nella mente di chi è divorato dalla solitudine, dalla perdita del senso e gusto della vita. I dati sono sotto gli occhi di tutti, il più eclatante quello di omicidi e suicidi, soprattutto tra i giovani. Persino gli incidenti automobilistici sono aumentati.
Le bombe di Mariupol possono anche sembrare lontane, ma il dolore e la solitudine del nostro vicino di casa non lo sono. Oggi più che mai chi ha ricevuto tanto è chiamato a dare.
God Bless America!
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