Nella guerra scaturita dall’invasione russa in Ucraina, il Web sta giocando un ruolo senza precedenti. Lo conoscevamo già come veicolo privilegiato di immediata propagazione di notizie (veraci o fake, a seconda dei casi), appelli e annunci da parte di politici, autorità civili e religiose, commenti di giornalisti e opinionisti, dibattiti sempre più feroci tra comuni cittadini.

Lo conoscevamo già parzialmente anche come arma offensiva, tramite la divulgazione di documenti riservati e i cosiddetti cyber-attacchi: a parte le attività dei Servizi Segreti dei Paesi coinvolti nel conflitto (direttamente o indirettamente, la guerra è di fatto mondiale, a questo livello), Anonymous, la più famosa rete globale di hackers “etici” (difendono per via cibernetica le cause che ritengono giuste), si è schierata decisamente a fianco del popolo ucraino oppresso e cerca di destabilizzare i sistemi informatici russi.

Appunto per limitare la libera circolazione di notizie e difendersi da cyber-attacchi, pare che la Federazione Russa voglia disconnettersi dal Global Internet entro l’11 marzo. Oltre a essere un’ulteriore potenziale calamità per il popolo russo – in larga maggioranza, anch’esso vittima di questa guerra – che potrebbe ritrovarsi isolato dal resto del mondo e in balìa della propaganda unica di regime, questo passo è una clamorosa attestazione della potenza riconosciuta del Web, temuta quasi come la violenza delle armi tradizionali.

In questo contesto, colpisce il ruolo giocato dalle grandi tech companies. In formazione pressoché compatta, tutti i colossi della Silicon Valley estesa (Apple, Amazon, Google, Microsoft, Meta-Facebook, Airbnb, Netflix, Paypal, Twitter, Cisco, Intel, Oracle, SpaceX, per citarne alcuni) e oltre (ad esempio, SAP, Spotify, TikTok, Samsung) stanno dalla parte del popolo ucraino, con una posizione molto decisa, tipica delle grandi battaglie civili portate avanti negli ultimi anni (pensiamo alla sostenibilità, alla lotta alle discriminazioni di genere e razza, ai nuovi diritti): supportano ONG con donazioni dirette in denaro (si parla di 5 milioni di dollari da Amazon, 6 milioni da Samsung, ecc.) e collette tra dipendenti e utenti, mettono a disposizione le loro reti territoriali per fornire assistenza logistica e consulenza di sicurezza informatica, offrono ospitalità ai profughi, arrivano in molti casi a interrompere – seppur temporaneamente – le proprie attività sul territorio russo, rinunciando ai relativi introiti (stimati mediamente intorno al 2% del fatturato totale).

Appena annunciate tali mosse, è partita la scontata caccia alla dietrologia: gli imprenditori digitali si fanno belli come paladini dei diritti umani, investendo una minima parte del proprio fatturato per dare una rinfrescata alla propria reputazione, che, tra continue accuse di infrazioni al diritto del lavoro, abuso di posizione dominante, elusione fiscale, connivenza con la diffusione di mala informazione, è spesso massacrata dall’opinione pubblica.

C’è sicuramente un punto di verità, in questa lettura cinica: tutto, in fondo, è marketing, e di certo queste azioni non sono un salto nel vuoto di un generoso utopista, ma ben ponderate. Ma questo solo cinismo, come ogni lettura aprioristica, non permette di capire i motivi profondi per cui le tech companies si muovono.

Ci sono due assets fondamentali e differenzianti, per ogni impresa della Silicon Valley, oltre all’idea di prodotto o servizio iniziale, e il carisma dei fondatori: la cultura aziendale e i talenti che ci lavorano.

Non esistono realtà aziendali con una cultura, un senso di appartenenza comparabile alle tech companies: le vere espressioni della Silicon Valley non sono mai aziende di transazione, che tatticamente si infilano in piccoli segmenti di mercato e svolgono il loro compitino nel buio, diventando iper-esperti in uno spicchio della catena del valore, e godendosi i margini che da essa derivano. Le tech companies nascono da un’intuizione e da una specifica competenza – come ogni attività imprenditoriale – ma, da subito, per essere globali, e per durare a lungo.

Per giustificare la propria esistenza, hanno bisogno di un purpose, un obiettivo di largo respiro che definisca chiaramente e sinteticamente chi si è.

Il motivo ideale è alla base di ogni grande tech: Apple, ad esempio, nasce per liberare l’umanità dalla dittatura dei PC IBM e rendere l’informatica facilmente accessibile a tutti; Amazon nasce per offrire al mondo la possibilità di trovare ogni articolo acquistabile al mondo, subito e facilmente, al prezzo migliore – un’opportunità di liberazione per le classi meno privilegiate; SpaceX (e BlueOrigin) nascono con l’idea nientepopodimeno di salvare l’umanità e il Pianeta Terra dalle conseguenze dello sfruttamento di risorse.

Prendere una posizione sulla vicenda Russia-Ucraina serve innanzitutto a questo, ad alimentare il purpose. Senza purpose, l’azienda muore in fretta.

Perché? Spesso i clienti non sono del tutto coscienti di questo obiettivo! Vero – però ne vedono l’attuazione quotidiana: chi ha esperienza di un acquisto su Amazon e di una interazione con il Servizio Clienti, capisce al volo.

Ma il punto più decisivo è che l’obiettivo di ampio respiro serve ad attrarre i talenti che fanno la fortuna delle tech companies: la fortuna di un’azienda che voglia essere globale e duratura non è mai solo la genialità di un imprenditore, ma la capacità di attrarre manager che sappiano farla crescere e continuamente innovare. Questo è il vero differenziale: vince chi assume e trattiene con sé i migliori talenti.

E i talenti, tipicamente altamente istruiti, cosmopoliti e nati digitali, vogliono lavorare per aziende di questo tipo, che li facciano sentire parte di una realtà globale, riconosciuta, attenta al mondo: ricordo varie catene di email in cui, tra colleghi, ci si testimonia l’orgoglio per le prese di posizione ideali dell’azienda (ad esempio, l’istituzione del Climate Pledge per la sostenibilità, o il sostegno a colleghi di nazionalità giudicate da Trump “potenzialmente pericolose”, che rischiavano di venir separati bruscamente dalla propria famiglia), e si immagina un rapporto duraturo e fedele, proprio in nome di questo orgoglio. La comunità di dipendenti ucraini, poi (molto talentuosi, in particolare in ruoli tecnici e da analisti) comprensibilmente sollecita prese di posizione.

Per trattenere e motivare costoro, i cervelli che mandano avanti tutto, non bastano i soldi (che sono più o meno gli stessi, in molte di queste realtà), serve un obiettivo grande, una visione ampia, un purpose sempre pronto ad abbracciare gli eventi del mondo.

Non è tutto male, né il marketing connesso è del tutto scandaloso. Le aziende italiane – grandi e piccole – possono forse imparare un po’, anche da questo approccio.

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