Una lezione dagli Ucraini

Anche oggi di fronte alla guerra prevale la voglia di ripartire, ricominciare, come dimostrano le storie di tanti profughi ucraini

Prima è stata la crisi finanziaria, poi il pericolo terrorismo, quindi il Covid-19 e adesso, quando la pandemia sembrava meno aggressiva, la guerra. Sembra che i disastri collettivi non abbiano mai fine e un senso di sconfitta sembra quasi inevitabile.

In questo contesto appare il fiume in piena dei profughi ucraini. Hanno perso tutto, nella migliore delle ipotesi solo i loro beni, spesso però anche amici e parenti stretti. Dovrebbero essere a ragione annichiliti, inerti, sopraffatti dal dolore. Eppure, nelle numerose interviste si avverte in loro una dignità e una volontà di ricominciare che a noi è spesso estranea.

Prevale sull’immensità del male il desiderio di rifarsi immediatamente una vita anche se non si sa dove, come e quando. È il caso della madre e due figlie provenienti da Mariupol e intervistate al confine rumeno in attesa di un treno per Bucarest. La più giovane, di appena 18 anni, rispondeva all’intervistatore in perfetto inglese, senza un filo di scoramento, raccontando che nella loro città c’erano i morti per strada ed era difficilissimo uscire, ma che ce l’avevano fatta cercando e trovando un impossibile passaggio in macchina. Alla domanda su dove sarebbero andate, la ragazza rispondeva che non lo sapeva, ma che dovunque sarebbero arrivate, avrebbero ricominciato immediatamente a vivere, abitare in una casa e a lavorare. Non si soffermava su ciò che avevano perso. Anche in presenza di ferite così grandi e fresche, il desiderio di vita s’impone.

Se ci pensiamo, è in realtà, più comune di quanto crediamo. Ma non lo notiamo mai abbastanza. Ricordo ancora un’immagine vista dopo lo tsunami del 2005: in un’isoletta dove tutto era stato distrutto, un vecchietto lacero, prima dell’arrivo dei soccorsi, spostava legni e sassi a mano, tanto era forte in lui il desiderio di ridare un ordine alla realtà intorno.

Ma non è solo la natura umana a muovere gli ucraini e tutti noi quando siamo in difficoltà: è la realtà. Sono stato colpito da diversi giovani immigrati giunti a Milano da situazioni difficili di guerra e povertà. Prima ancora di avere una casa stabile, uno ha cominciato a lavorare in una start-up di comunicazione digitale, un altro in una software house, una terza ragazza è riuscita a iscriversi in università.

Non ci si può fermare per il dolore quando si hanno figli a cui si deve dare da mangiare ogni giorno, costruire loro una nuova prospettiva di vita, curare anziani e disabili, o vivere una vita.

La realtà chiama il cuore a rispondere. Come una mia amica vicepreside di una scuola media che ha dovuto parlare a genitori, alunni e docenti il giorno dopo il suicidio di uno studente. Era fondamentale dare una ragione per continuare a una comunità smarrita. Ha aperto tutti a percepire che in quel gesto c’era un invito a vivere ogni giorno con un senso che spesso non si cerca e che forse quel grido disperato contenuto in quel gesto non sarebbe rimasto senza risposta anche per quel ragazzo. Diceva il poeta inglese Percy Bysshe Shelley: “Guardiamo al prima e al dopo e ci struggiamo per ciò che non c’è”. Invece la realtà presente strappa dalla disperazione e dall’ansia per spingere a valutare dove fermarsi, quale abitazione concedersi, come procurarsi il pane.

Non vale solo per gli ucraini ma anche per tutto il nostro Paese affetto, secondo il Censis già prima del Covid, da mancanza di desiderio e dal rancore. Invece di rimpiangere il benessere che non c’è più, di lamentarsi per ciò che si è perso, ci si può sempre rimettere in azione. Più poveri magari, ma più veri, trasformando l’inquietudine in domanda di senso.

Sono divenuto amico di una famiglia in cui è improvvisamente morto uno dei tre figli di 5 anni per un imprevedibile arresto cardiaco. Il dolore che rimane profondo non impedisce ai genitori e ai parenti di guardare questa perdita come un compimento, per un significato incomprensibile ma reale. Stanno guardando il Mistero che hanno incontrato in un modo più profondo chiedendogli di svelarsi. La presenza degli altri due figli piccoli, il lavoro e la vita che continua li chiama a vivere con un’intensità e una drammaticità prima sconosciuta. Un popolo intero li guarda ed è spinto a imitarli in una rinnovata serietà verso la vita.

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