La parola “verità” gode oggi di un’attenzione che raramente ha avuto nell’ultimo secolo. Lo scoppio della guerra in Ucraina, e la necessità di alimentare la propaganda da entrambi i fronti, ha incontrato le molteplici capacità tecniche con le quali oggi l’umanità può manipolare immagini, fotografie, video. Quello che ne è emerso è stato un vero proprio dibattito circa il vero: esiste? si può affermare con assoluta certezza? è chiaramente identificabile?
Gli storici delle guerre ci dicono che gli eventi bellici conoscono tre modi molto diversi di approcciare la verità: ad evento in corso, quando occorre decidere da che parte stare scommettendo sui pochi dettagli che si conoscono, a fine evento, quando i vincitori impongono sempre la loro verità processando i vinti, e a distanza di decenni, quando finalmente si può tornare sui fatti con una qualche indagine di tipo storico. Oggi noi ci troviamo chiaramente nel primo momento, in cui un azzardo è necessario non solo se si crede che esistano alcune ragioni e alcuni torti da una parte o dall’altra, ma anche e soprattutto se si cerca la pace. Perché a dire che le armi devono tacere siamo bravi tutti, ma ad indicare come e a prepararne le condizioni noi – pacifisti da divano – siamo generalmente un po’ meno bravi.
È quindi normale che esista un dibattito all’interno dell’opinione pubblica, che si cerchi di distinguere la verità dalla propaganda, che si provi a portare avanti una posizione onesta e costruttiva capace di creare le premesse per il superamento dei conflitto armato. Quello che è un po’ meno normale è il vizio, decisamente europeo, di utilizzare quanto succede – qualunque cosa essa sia – per riaffermare un già saputo, le posizioni che portiamo avanti e che, quindi, abbiamo già in mente.
È così che si passa da essere virologi esperti di pandemie a fini costituzionalisti in tema di green pass, che si affianca l’eterno lavoro di allenatore della nazionale con quello di analista geopolitico e fine stratega militare. Il filosofo Byung-Chul Han ha scritto in uno dei suoi ultimi pamphlet che questo accade perché abbiamo sostituito al rapporto con le cose il rapporto con le informazioni: sappiamo così tante cose che ci riteniamo esenti dalla necessità di averne esperienza.
Nel nostro giudizio sulla realtà accade così che si inizi sempre non da quello che abbiamo sperimentato, bensì da ciò che sappiamo o da come vorremmo che le cose andassero in virtù dell’idea che ce ne siamo fatti. Difficilmente amiamo figli veri, ma l’idea dei figli, o mariti e mogli veri, ma l’idea del marito e della moglie che abbiamo nella zucca. Difficilmente vediamo che succede davanti al dolore, ma decidiamo già come ci si debba comportare in forza dell’immagine che del dolore ci siamo fatti. Molte delle grandi questioni etiche del nostro tempo nascono proprio da questo divorzio tra la ragione e l’esperienza.
Ma che cosa vuol dire, in una guerra, partire dall’esperienza? Accade spesso che ci si dimentichi che l’ultima frontiera della ragione, il suo più grande manifestarsi, sia la fede, ossia la fiducia. Solo i razionalisti si chiedono che cosa ci sia di vero in quello che viene raccontato, mentre una persona umana, semplice, si chiederebbe di chi ci si può davvero fidare. Perfino Cristo, in questa settimana santa, ha dovuto rischiare la Sua vita non sull’esperienza che aveva della morte, ma sulla fiducia sul Padre. Scommettere su di Lui è ciò che davvero ha cambiato tutto.
In questo modo anche noi siamo chiamati a scommettere su una delle tante persone che sono davvero al fronte, che davvero vedono e guardano tutti i giorni questa guerra, in modo tale che la nostra fiducia non sia su un’opinione, ma sull’esperienza di un altro.
A ben vedere è proprio questa la conoscenza: fidarci della strada che qualcun altro ha fatto per noi al punto tale da non dover ricominciare daccapo. Perché la verità non è mai un’idea o un pensiero, la verità è qualcosa che c’è. Come direbbe Pilato, la verità è sempre Uno che è presente.
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