Quanti fagioli ci sono nel vaso? a) 8.358; b 11.728); c) 10.944; d) 11.090. Quante sono le barre di un codice a barre? a) 24; b) 33; c) 27; d) 38? È il caso di dire che Raffaella ha fatto scuola. Raffaella intesa come Carrà. Quiz telefonico, quello coi fagioli (anni 1985-86), e record di ascolti. Quiz telematico, quello col codice a barre (anno 2022), e record di bocciati. Il quiz dei fagioli era proposto alle casalinghe non solo di Voghera nella fascia oraria di mezzogiorno; quello del codice a barre è stato proposto agli aspiranti a una cattedra di matematica nella scuola italiana. Te la giochi a colpi di crocette: la carriera, s’intende. Su domande anche così.
È il concorso ordinario per diventare docente di ruolo, che non si faceva da una vita. Sono cominciate le prove per gli oltre 450mila iscritti che puntano ad uno dei 56mila posti previsti. La prova scritta, preselettiva, consiste in 50 domande “chiuse” (crocettare la risposta giusta sulle quattro indicate) e va svolta esclusivamente al computer.
Sono iniziate le prove del “primo calendario”, che si concluderanno il 13 aprile, e già è una strage (80-90 per cento bocciati, in certi casi 95 per cento), proteste, diluvio annunciato di ricorsi. Al punto che qualche notizia comincia ad esserci sui giornali, che della scuola si occupano tanto quanto essa sta a cuore a quelli che contano nel nostro Paese, ciò un fico secco.
La proteste sono innanzitutto per l’ambiguità di certe domande, in qualche caso perché ritenute assurdamente mnemoniche. Tipo: che cos’è l’OER del PSND? In che anno fu emanato il Dictatus Papae?, e via quizzando sull’onda di un nozionismo talvolta aberrante, spesso avulso dalla realtà dell’insegnamento. Quanti bravi prof con vent’anni o trenta di esperienza sarebbero bocciati! Ma davvero. Insomma un concorso che “presenta più d’una criticità”: così si dice in garbato ipocrita burocratese; la mitica sentenza di Fantozzi sulla Corazzata Potemkin renderebbe meglio l’idea.
Adesso saltano su tanti a protestare, cominciando da quei sindacati che non solo prima hanno taciuto ma sono strettamente intrecciati con la burocrazia ministeriale. Ma tant’è. Protesta anche il ministro Bianchi, che butta la croce(tta) addosso alla ex ministra Azzolina, la quale ha sì lanciato il concorso, ma non con la prova a crocette, pensata e realizzata regnante il Bianchi stesso. Che la croce(tta) dovrebbe forse buttarla addosso a se stesso (la predecessora può buttarsi addosso i banchi a rotelle).
Il metodo delle crocette con domande trappola sembra invero molto adeguato se si vogliono raggiungere due obiettivi: primo, tagliare i tempi, la fatica e i costi: il risultato è automatico e immediato (con meno di 35 risposte giuste sei escluso) senza bisogno che qualcuno rilegga e valuti 450mila elaborati; secondo, eliminare il più alto numero possibile di candidati. Se viene promosso, poniamo, il 20 per cento, sono 90mila gli ammessi all’orale, a fronte dei 56mila posti in palio. E quasi ci siamo.
Sul metodo delle crocette c’è discussione, e meno male. Sarebbe però opportuno non limitarsi a discutere sui tecnicismi e gli aspetti funzionali in sé (ci può essere un questionario fatto bene o male, ci può essere una prova aperta valutata bene o male), ma identificando il fine cui si vuole rispondere. Il fine è reclutare buoni insegnanti, dentro un orizzonte più ampio che non può essere altro che quello educativo.
L’educazione è un processo che guida il ragazzo nella realizzazione della propria persona, cioè nella sua “introduzione alla realtà totale” (J.A. Jungmann) “fino alla scoperta del suo significato” (L. Giussani). Non si riduce all’istruzione, ma implica molto altro. Ma la conoscenza e l’istruzione hanno senso ed efficacia in rapporto a questo orizzonte. Il docente non è semplicemente un competente o un esperto, ma un maestro. La scuola è il luogo di un rapporto vivo tra maestro e alunno, tra persone, non tra un distributore automatico di nozioni e un ricettore passivo solitamente annoiato.
È evidente che un bravo insegnante deve conoscere la sua materia, ma per questo dovrebbe strabastare la formazione universitaria. Un bravo insegnante deve saper proporre processi di apprendimento che coinvolgano l’alunno come co-protagonista. Vale l’antico detto: i ragazzi sono fuochi da accendere, non vasi da riempire.
Per fare questo il docente, anche non deliberatamente, riconosce, valorizza, fa incrementare anche le attitudini personali e le capacità cosiddette non cognitive, ma che sono parte decisiva della persona che è una, e del suo mettersi in azione. Parliamo dell’apertura agli altri, della stabilità emotiva, dell’autostima, ecc. Chi sostiene ancora oggi che di queste cose la scuola non si deve occupare, ma solo di conoscenze, è lontano mille miglia dalla realtà. È illuminante la lettura di Fuochi accesi di Davide Perillo: racconta decine e decine di vicende di ragazzi delle superiori che hanno cominciato a studiare quando hanno incontrato un maestro da cui si sentivano compresi e valorizzati, non che li trattava come oche da ingozzare.
Si diventa “maestri”, oltre che per personale propensione e capacità, necessariamente attraverso l’esperienza. E dunque come converrebbe accertare questa capacità?
Chi scrive non è esperto di scuola. Ieri però era a pranzo con una coppia di amici. La figlia, raccontavano, laureata in medicina, sta facendo la specializzazione ed è al secondo dei cinque anni di tirocinio. Lavora, impara, percepisce uno stipendio per approdare ad essere a tutti gli effetti “medico finito”.
E perché una logica del genere non dovrebbe valere per la scuola?, mi sono detto. Perché teniamo a vita 250mila precari (pagati poco nei due mesi estivi come cassintegrati, a carico dell’Inps!) su 850mila docenti? Poi mi sono detto: ma io qualcosa del genere l’ho letto. D’Avenia, ecco, sul Corriere del 4 aprile: parla di un film – Lunana – sulla straordinaria storia di un rapporto tra maestro (in tirocinio) e allievi nella piccola comunità di un villaggio sperduto del Buthan a oltre quattromila metri. Tirocinio, avete letto bene. Il sistema scolastico del Buthan, 800mila abitanti tra Cina e India, lo prevede, e dura cinque anni.
Che sia la direzione giusta? Occorre scommettere sull’educazione come orizzonte e sulle persone come attori responsabili. Occorre dunque scommettere sulla libertà di educazione, sulla reale autonomia, sulla dignità del docente. Occorre perciò scuotere via i detriti fossilizzati delle vecchie logiche stataliste, catto-comuniste, giacobine, corporative, burocratiche e assistenzialiste che hanno fatto il brutto tempo (e la corazzate Potemkin) fin qui.
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