I commenti sull’esito delle presidenziali francesi – comprensibilmente – sono concentrati sugli aspetti politici, sullo sfondo della crisi globale, Ma viste dall’Italia, Paese europeo confinante e confrontabile, i messaggi più strettamente socioeconomici non sembrano meno importanti. Anzi, il primo turno per l’Eliseo promette di orientare la volata finale fra Emmanuel Macron e Marine Le Pen su temi squisitamente interni: prevedibilmente non dissimili da quelli che intesseranno la campagna elettorale italiana, si voti fra 11 mesi o forse prima.

La ricomposizione del 72% voti non andati, Oltralpe, al Presidente in carica  può essere più o meno arbitraria. Colpisce però già una curiosa coincidenza con la percentuale di francesi in cui il reddito disponibile risultava inferiore alla media Ue già prima dell’emergenza Covid. Nelle urne, i “gilet gialli” che hanno messo a ferro e fuoco per un anno i sabati di Parigi possono aver scelto sia il Rassemblement National (nella quale si riconosce molta piccola impresa della Francia profonda), sia France Insoumise, in cui la sinistra antagonista (forte nelle “banlieue”) ha ritrovato un contenitore competitivo. L’opposizione alle politiche economiche e sociali di un Presidente “senza partito”, espressione di un establishment tecnocratico e globalista, rimane però intatta. Anzi: la crisi energetica provocata dalla guerra russo-ucraina sta solo riproponendo in termini aggravati – e tutt’altro che simbolici – la questione “gialla”.

I prezzi dei carburanti tradizionali promettono un’inflazione esterna molto più pesante di quella pilotata per via fiscale da Macron per accelerare la transizione ecologica (a  proposito: domenica scorsa i verdi francesi “doc” hanno confermato di essere una forza del tutto irrilevante). Il Presidente ha già giocato d’anticipo la carta del “nucleare pulito” (gradita alla grande industria “mista”, nocciolo duro dell’Azienda-Francia), ma deve ancora “venderla” all’Ue (superando le riserve di Berlino, dove i Grunen sono nella coalizione di governo); e deve soprattutto “mettere a terra” la sua brusca virata in tempi brevi. Disinnescare la vera minaccia “disruptiva” che viene dall’Ucraina – esattamente come la recessione lo è stata e lo è sul fronte dell’emergenza-Covid –  costituisce la vera sfida per Macron: molto più impegnativa di quella che sta affrontando al ballottaggio con Le Pen, con buone “chance” di successo,

La sfida si pone comunque già in questi giorni, nella “fase due” della campagna elettorale. A maggior ragione se Macron si aggiudicherà l’Eliseo con un margine più risicato rispetto al 66/34 del 2017, sembra già nell’ordine delle cose che En Marche! dovrà cercare alleanze all’Assemblea nazionale. E questo anzitutto verso France Insoumise, cioè il grande bacino dei francesi colpiti nell’occupazione e nel reddito dalla “crisi infinita”. E nelle corde di un presidente “2.0” (come già Macron si è proposto negli ultimi cinque anni, pur con limitati successi iniziali) c’è probabilmente la costruzione di una “union sacrée”, di cui la Francia è sempre stata capace, fra una “rupture” rivoluzionaria e l’altra. 

Il Presidente votato domenica scorsa dal 27% del 74% dei francesi affluiti alle urne non può non tentare – probabilmente dovrà tentare – un “patto fra produttori”. Ciò che gli consentirebbe, prevedibilmente, di assumere una leadership non solo istituzionale in un’Europa drammaticamente privata di quella tedesca. Una leadership che difficilmente potrà fare a meno di quella di Mario Draghi in una della caselle-chiave dell’organigramma internazionale in via di accelerato rimpasto: soprattutto se Macron confermerà le voci di richiamo anticipato di Christine Lagarde dalla presidenza Bce al ruolo di Primo ministro a Parigi. Con il conseguente – probabile – primo approdo di un banchiere tedesco a Francoforte.

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