È appena terminata una settimana incredibilmente ricca di fatti, di accadimenti inusuali, potremmo dire quasi di miracoli. Non è stata la guerra ad avere avuto queste caratteristiche, poco di inusuale purtroppo abbiamo visto in essa, ancor meno di miracoloso. È stato altro. Tutta la settimana appena trascorsa ci ha investito con una marea di eventi particolari, fatti raccontati, documentati, che ormai nessuno osa neppur più contestare, almeno nel loro essere materialmente accaduti. La storia di un ebreo che a Gerusalemme, più di duemila anni fa, era stato condannato a morte per crocifissione.

Lui non si era ribellato, lui diceva che così faceva la volontà di suo padre, i suoi accusatori invece dicevano che aveva sobillato il popolo e si era detto figlio di Dio. Restava comunque il fatto inequivocabile che lo avevano preso, torturato, ucciso. Lui era morto. Lo avevano messo in un sepolcro. Ma quando i suoi erano andati a cercarlo, nel sepolcro lui non c’era più. E poi nei giorni successivi qualcuno lo aveva pure rincontrato per strada e una volta lui stesso si era fatto trovare sulla spiaggia e aveva preparato del pesce per i suoi amici.

Difficile, nei giorni che la Chiesa chiama Settimana Santa, non vedere questi fatti, non ascoltarne, anche se in modo frammentario ed occasionale, il racconto. Perché quella morte atroce sulla croce e quella scomparsa dal sepolcro, che chi ci crede chiama resurrezione, dopo duemila anni continuano a mostrarsi in tanti luoghi delle nostre città e dei nostri paesi, riempiono non di rado anche gli schermi dei nostri televisori e difficilmente vengono ignorati dai social.

Veramente difficile sarebbe, di fronte a questa quantità di fatti che ci raggiungono, acconsentire con l’affermazione di Nietzsche “Non esistono fatti ma solo interpretazioni”.

Anche perché a questi fatti continuano ad aggiungersene altri. Storie di uomini la cui vita è stata cambiata dall’incontro con quell’uomo crocifisso che, dopo essere scomparso dal sepolcro, ha continuato ad abitare il mondo attraverso quelli che lo avevano conosciuto, che hanno raccontato di lui ad altri e, come amava dire don Giussani, “come un fiume, attraverso tanti secoli, quell’uomo è arrivato fino a mia madre e da mia madre è arrivato a me e da me a te”.

Ma se è vero che tanti hanno visto questi fatti, quelli di duemila anni fa e quelli di oggi, altrettanto è vero che molti non se ne sono accorti. Pur avendo visto, non hanno dato peso alla cosa. Magari per distrazione o per comodità. Spesso anche per un rifiuto ideologico, perché ci vuole una buona dose di lealtà a mettere in conto fatti che possono scardinare certezze consolidate e aprire il cuore e la mente a qualcosa di nuovo. I fatti da soli non bastano, ci vuole qualcuno che se accorga. Qualcuno che trovi un fatto così corrispondente al suo cuore da decidere di abbandonare tutto per seguirlo, come era successo a quelli che avevano seguito Gesù, l’ebreo di Gerusalemme che era stato crocifisso.

Stranezze così succedono ancora. Nel 2016 avevo conosciuto a Madrid Mikel Azurmendi, docente di antropologia, già membro dell’Eta (nella sua fase pre-terroristica), dichiaratamente laico ed agnostico. Era stato invitato a parlare di Europa in un Meeting organizzato da cattolici. Qualche anno dopo sarebbe stato lui stesso a raccontare di quella circostanza. Di essersi “ritrovato come uno zombie appena paracadutato su un villaggio sconosciuto. Un villaggio nel quale tutti sorridono. Non temi nessun attacco da parte loro, ti senti come murato tra gente dolcemente strana, come in mezzo a un paese pieno di sole. Sentii vicinanza, ascolto, gratitudine. Venivo ricevuto per come sono, agnostico e scoraggiato”.

Successivamente, ancora tornerà a raccontare. “Non mi aspettavo di incontrare nulla di tutto questo nella mia vita. È stata una grande sorpresa. A poco a poco sono entrato in uno stato emotivo di ammirazione. L’ammirazione è ciò che ti porta a essere d’accordo con ciò che hai trovato, perché vuoi essere quella cosa lì”. Quel moto di ammirazione ha portato Mikel a guardare sempre più a fondo quello che aveva visto e a permettere che tutto questo gli cambiasse la vita.

Fatti visti, fatti raccontati, fatti ammirati. Ma la vittoria dei fatti apre la strada a un’altra vittoria, quella della storia. C’è un luogo nel mondo dove la vittoria dei fatti mostra tutta la sua capacità di fare storia. È l’esperienza cristiana.

In un libro fresco di stampa, edito da Piemme, scritto a due mani da Umberto Galimberti e Julián Carrón, a un certo punto Galimberti pone una questione non da poco: “se Dio è presente e fa storia”. Carrón interviene non con ragionamenti ma mettendo in campo fatti. “Noi possiamo conoscere Dio perché Lui stesso si è reso presente nella storia, è entrato nell’orizzonte dell’esperienza umana”. E aggiunge: “Come possiamo dunque riconoscere la sua presenza nella storia? Attraverso i volti di persone umane”. “Gesù Cristo, Dio fatto uomo, si rende presente sotto l’aspetto di una umanità diversa, più umana, che suscita in chi vi si imbatte una esperienza di corrispondenza alle proprie esigenze fondamentali che sembrava impossibile”.

Ecco perché i fatti fanno storia! Perché ci sono uomini che se ne accorgono, che vedendoli sono presi da ammirazione e che decidono, come il mio amico Azurmendi o come gli amici dell’ebreo crocifisso, di andare a fondo a capire cosa c’è dentro quei fatti.

E questo gusto di scoprire cosa c’è dentro o dietro un fatto è veramente una bella diga contro l’ideologia e la violenza. Un bel guadagno di verità!

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