Un anno fa – quando il peggio della pandemia sembrava superato – l’euro appariva in salute accettabile: valeva oltre 1,2 dollari. Per quanto può indicare il principale cambio assoluto, la valuta europea  era lontano dai massimi storici (1,6, quando nel 2008 Wall Street stava collassando) ed era inferiore anche a quello del luglio 2012, quando Mario Draghi pronunciò il suo famoso “whatever it takes” per contrastare la crisi di sfiducia legata alla spirale critica fra debiti sovrani e sistema bancario.

All’inizio del 2021, comunque,  l’euro aveva recuperato il massimo di periodo toccato a metà 2018, al termine del lungo rimbalzo successivo alla crisi greca del 2015. E la moneta unica europea si trovava ancora all’interno della fascia in cui aveva fluttuato per la maggior parte dei suoi 22 anni di esistenza. Ora invece è sotto 1,1: in caduta sotto il “bottom”  pandemico toccato nel marzo 2020. Si sta avvicinando ai minimi raggiunti durante l’impasse di Atene e dopo Brexit.

I fondamentali economici, in dodici mesi si sono rovesciati: e per la verità l’euro ha cominciato a registrare da subito – con traiettoria inversa – le turbolenze sul mercato del gas che hanno segnalato fin dall’estate la preparazione  dello showdown russo-ucraino. Oggi le attese di una ripresa forte e rapida – “post-bellica” – dell’economia dell’eurozona dopo la pandemia hanno lasciato il posto a scenari di nuova e lunga “guerra semifredda”. In questi ultimi  l’Europa sembra una sorta di vittima predestinata a una fase di insidiosa “stagflazione”: colpita dalle stesse sanzioni occidentali alla Russia, nell’import di materie prime energetiche ma anche dalla caduta degli scambi internazionali, ancora non normalizzati nelle catene di rifornimento.

Di fronte all’indebolimento esterno dell’euro – mentre  l’inflazione si sta surriscaldando – non vi sono dunque motivi di sorpresa. E sembra azzardato anche riporre eccessive speranze nell’uso delle leve tecniche di politica monetaria da parte della Bce: che sta indugiando nel seguire la Fed sulla scia del rialzo dei tassi e della de-escalation nell’acquisto di titoli pubblici.  È su queste scelte d’altronde – sulla coesione dei Paesi membri dell’eurozona nella governance Bce – che l’euro promette di tornare ad assumere la sua natura squisitamente politica: di simbolo – singolo ma consolidato – dell’Unione europea stessa.

Un anno fa l’euro era in salute anche perché i Ventisette avevano appena varato il Recovery Fund: un passo per nulla scontato e invece una testimonianza forte della capacità dell’Ue di utilizzare la fasi di crisi per rafforzare le sue strutture e la sua integrazione. All’inizio del 2021, il dollaro era debole anche per i riflessi di una situazione sociopolitica interna nettamente peggiore di quella economica. E la difficile riconquista “dem” della Casa Bianca non aveva migliorato il contesto, anzi: l’Amministrazione  di Joe Biden ha sostanzialmente mancato, nel primo anno, tutti gli obiettivi di politica socioeconomica (investimenti pubblici, aumento dei salari, riforma dei monopoli digitali). L’Europa invece, sembrava capace di accelerare sulle vie del NextGeneration, la doppia transizione digitale ed eco-energetica.

All’inizio del 2022 l’Europa si ritrova sulla linea del fronte di una guerra globale fra un “nano economico” dotato di armi nucleari e quello che resta un gigante a tutto campo sul pianeta, per quanto insidiato dalla Cina e in crisi politica interna. Fra i rischi più gravi che l’Ue corre c’è quello di vedere “bombardata” la sua moneta: cioè l’asset più prezioso costruito in quasi 75 anni di storia. Viceversa, l’Europa può trovare nell’euro il baricentro (tutto politico) di una resilienza che non avrebbe mai immaginato di dover generare.

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