Che cos’è la pace? Risuona drammatica e urgente questa domanda davanti al quotidiano stillicidio di reciproche propagande che offusca il dramma più vero, quello di uomini, donne e bambini in fuga, martoriati da un conflitto che è destinato a cambiare ancora una volta la cartina geografica di un continente che si raccontava – illudendosi – che la storia fosse finita.

Che cos’è la pace? Se lo sono chiesti i tanti nuovi interessati fan del Papa che, improvvisamente, hanno scoperto nel Pontefice un punto di riferimento per una stagione buia della storia. Sono in molti ad aver incitato Francesco a recarsi a Kiev, a compiere un passo giudicato da molti come decisivo sul cammino del “cessate il fuoco”. Ma il Vescovo di Roma non vive di spettacolo, di colpi di scena o di mosse a sorpresa, e quello che all’inizio della guerra poteva sembrare un atto capace di disarcionare la presunzione dei potenti, oggi si rivelerebbe una futile passerella priva di ripercussioni concrete e positive sulla vita del popolo.

Non si può chiedere al Pontefice di fare uso improprio di cadavere, di usare la carneficina in atto per figurare politicamente come imprescindibile punto di riferimento dell’Occidente. Il Papa non vuole semplicemente la pace, il Papa vuole che tacciano le armi perché sia più chiaro – e più nitido – il grido degli ultimi che muoiono sotto l’efficienza delle armi. Per questo, intervistato dal quotidiano argentino La Nación, ha ribadito che andare a Kiev sarebbe inutile “se poi il giorno dopo continua la guerra”.

Per usare una felice espressione dell’Evangelii Gaudium, documento manifesto di questi dieci anni di pontificato, andare in Ucraina oggi servirebbe solo ad occupare degli spazi e non ad iniziare processi. E questo in qualche modo giudica non solo tante nostre azioni quotidiane, animate più dal desiderio di esserci che di servire, ma anche l’altra grande spinosa questione affrontata dal successore di Pietro nell’intervista: la sospensione del previsto incontro di Gerusalemme con il patriarca di Mosca.

Parliamoci chiaro: se andare a Kiev suonerebbe alle diplomazie di mezzo mondo come un esplicito appoggio alla politica occidentale, appoggio che taglierebbe ogni dialogo con l’oriente, incontrare Kirill a Gerusalemme equivarrebbe a riconoscere le ragioni di Mosca di cui il patriarca ortodosso si è fatto alfiere e interprete. È stato “il papa di Mosca” infatti a non riconoscere – in tempi ancora prebellici – la decisione del Concilio di Riconciliazione del 2018, quando la Chiesa ortodossa autocefala dell’Ucraina ricompose i suoi dissidi con il Patriarca di Kiev costituendosi come Chiesa ortodossa ucraina, indipendente da Mosca, e benedetta dal Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo. La separazione da Mosca, allora soltanto religiosa, suonava come indicibile alle orecchie del patriarca moscovita, esattamente come l’indipendenza dell’Ucraina suona da tempo come blasfema alle orecchie dello Zar Vladimir.

Kirill è dunque prigioniero di un criterio nazionalistico che non solo appiattisce la Chiesa sulla politica del potente di turno, a cui si delega la trasformazione in legge della dottrina bypassando la libertà del singolo e creando così le premesse per una pesante “marea di ritorno”, ma che riduce il cristianesimo ad un mero evento culturale. Quello stesso cristianesimo che supera la circoncisione e annuncia che “non esiste più né Giudeo né Greco” diventerebbe così – di colpo – un fatto che non incide più sull’ontologia, su quello che uno è e diventa dopo l’incontro con Cristo, ma rimarrebbe un’opzione etica, conseguente ad una valutazione politica.

Questo Kirill, ha stabilito la diplomazia vaticana, non si può dunque incontrare: avvicinarlo significherebbe avvallare implicitamente tutta l’involuzione del patriarcato di Mosca. Così il Papa si trova ad ammettere che “incontrarlo in questo momento potrebbe creare molta confusione”.

E già affiorano le delusioni degli ecumenici ingenui, di quelli che non comprendono che nelle relazioni non è solo la vicinanza ad essere una forma di rapporto, ma – anche e soprattutto – l’assenza, la distanza. In un clima culturale dove domina ogni tipo di dualismo e di contrapposizione polare imparare l’arte della distanza, dei confini, delle giuste prospettive, significa recuperare quella castità delle dinamiche interpersonali che è capacità di custodire e di custodirsi.

Che cos’è la pace? È imparare ad abitare lo spazio del desiderio, imparare a desiderare senza possedere. La guerra è il primato di ogni brama di possesso, la pace è una distanza fra noi che non necessariamente deve essere occupata, la pace è verginità. Viverla significa essere posseduti da un grande amore che ci libera dalla necessità di dominio, dalle necessità di un affetto peloso, dalla necessità di riscuotere tutti i supposti debiti che la vita avrebbe con noi. La pace è un dono di cui gli uomini non sono capaci se non quando, esausti, sono disposti a venire a compromessi con i loro interessi. La pace vera sgorga pertanto nel cuore dal perdono, dalla giustizia, dal silenzio. È un regalo per chi non ha più paura. Perché ha trovato casa nell’abbraccio di Qualcuno che ha vinto la più grande delle paure, quella della morte.

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