Il Patriarca ortodosso di Mosca ha giustificato l’invasione dell’Ucraina in nome della difesa della madre Russia; identifica il bene, anche religioso, con la politica del presidente della Russia Vladimir Putin; al pari di Putin pensa che per ottenere la pace non ci sia altro modo che fare la guerra.

Si potrebbe liquidare il tutto con un’affermazione: nel mondo ortodosso non si è mai realizzata quella distinzione tra potere religioso e civile a cui si è giunti, a costo di tanti errori e conflitti, nell’Occidente.

Ma non basta. Anche in campo cattolico molte volte episcopati e movimenti di liberazione hanno assunto posizioni simili a quella del patriarca di Mosca. La patria è stata invocata come ragione sufficiente per identificarsi con nazionalismi divisivi. Non solo Franco in Spagna o Salazar in Portogallo: tutti i tentativi di secessione in nome di una presunta identità etnica e storica come in Catalogna, Scozia, Portorico, Quebec hanno visto il sostegno di rispettivi episcopati locali.

In questa concezione il potere è uno strumento che le chiese hanno usato per difendere i loro privilegi e i loro valori morali, soprattutto nel caso in cui sono venute meno al loro compito di testimoni della fede.

In quest’ottica, anche tanti cattolici hanno giustificato delle tragedie belliche assurde viste come “guerre di civiltà” quali quelle dei Bush e di Obama in difesa della cristianità occidentale contro il pericolo islamico.

Non esiste convivenza costruttiva se non condividendo la vita con i propri prossimi, in quelle comunità locali che in tutt’altro contesto, l’economista Raghuram Rajan, già governatore della Banca centrale indiana, considera il terzo pilastro di uno sviluppo veramente umano con Stato e mercato.

Storicamente i cristiani hanno sempre dato il loro contributo alla costruzione della società civile, accettando l’ordine costituito e l’autorità preposta a garantirlo.

Una patria che si chiuda in nazionalismi e populismi, in egoismi e rancori verso altre patrie è il prodromo della guerra. Invece, patrie che come l’Italia di De Gasperi, la Germania di Adenauer, la Francia di Schuman si sono aperte a collaborazioni stabili verso altri Paesi per la costruzione europea, sono state fattori di pace in un’ottica multilaterale, regolata da realtà e istituzioni internazionali.

Così, sottolineava don Luigi Giussani, all’interno di un Paese siamo chiamati a servire “la comunità umana (…) fino alla politica, secondo la capacità della nostra gratuità” e, a livello internazionale, tutto questo implica una continua collaborazione con gli altri capi di Stato per costruire “un’amicizia tendenzialmente universale nella quale la storia umana trova l’aiuto migliore”.

Patria e potere devono essere strumenti per un bene più grande, quello delle singole persone e dei popoli, altrimenti “il potere diventa affermazione della propria posizione chiusa, violenta, oppure una intemperante negazione di ogni significato, di ogni rilievo, di ogni stima”. Condizione per una tale concezione positiva di patria e potere è che si sperimenti nella vita quotidiana, nel lavoro, nella famiglia nei rapporti l'”accadere di una concezione della vita, di un sentimento del reale, di una onestà alle circostanze (…) secondo una visione e secondo una percezione del proprio destino di verità e di felicità”.

Primo compito dei cristiani è di vivere quotidianamente questa amicizia che genera una diversa concezione di vita, che si sia cittadini piuttosto che governanti. Se si sperimenta questa concezione di pace e di potere si saprà meglio distinguere tra chi li concepisce come violenza e chi ricerca il bene comune.

Una chiesa che vezzeggia per tornaconto economico e geopolitico Putin, Erdogan, il potere saudita o quello cinese, pone le premesse per guerre come quella attuale. Nello stesso tempo sarà più chiaro che occorre perseguire una prospettiva di continuo compromesso per il bene comune con l’aiuto delle istituzioni internazionali.

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