Sant’Agostino parlò della pace come “il più dolce di cui si possa parlare, il più desiderabile che si possa bramare, il migliore che si possa trovare” tra “i beni passeggeri della terra”. Dopo due mesi di bombardamenti sulla città di Mariupol, trasformata in un cumulo di rovine, abbiamo capito meglio le dimensioni di questa carneficina che insanguina l’Europa. Il desiderio di porre fine al conflitto è sempre più forte. Dalla fine di febbraio abbiamo visto i campi e le città dell’Ucraina disseminati di cadaveri. L’assedio dell’acciaieria di Azovstal, con i suoi combattenti amputati e affamati, con i suoi civili esausti, è diventato uno dei simboli di ciò che sta comportando “l’operazione speciale”, l’invasione lanciata da Putin. 

Questa guerra è troppo simile a quella della Siria e dell’Iraq. Basta aver calpestato le strade di Aleppo per capire le dimensioni di ciò che sta accadendo, per comprendere cosa significhi l’assedio di una città che lascia migliaia di persone senza acqua, senza cibo, senza ripari dalle bombe. Basta aver visto blocchi di edifici attraversati, come se fossero di cartone, da missili che perforano il cemento di più piani. Basta aver visto intere strade, deserte, in cui tutte le case sono state ridotte in macerie. 

Basta essere stati in un campo profughi in Libano, Giordania o Grecia per capire il prezzo altissimo della mancanza di pace. Basta aver visto, al confine polacco, i volti pieni di ansia, paura e disperazione di chi è fuggito dalle proprie case. Basta vedere una donna piangere per la separazione dal marito e dalla sua famiglia per capire qual è il dono più desiderabile. Basta essere svegliati nella notte dal suono rauco di una bomba che squarcia il cielo e riempie tutto di incertezza per capire qual è il migliore tra tutti i beni. La pace è la più consolatoria delle grazie, una cosa diversa dal pacifismo da salotto che si nutre di vecchi schemi mentali, di terze vie che non esistono, di equidistanze impossibili. 

Quale pace è possibile in questa seconda fase della guerra? È difficile pensare a una soluzione che non garantisca un minimo di libertà per il popolo invaso. Il discorso del 9 maggio ha chiarito che, in mancanza di un qualche tipo di vittoria da poter esibire, Putin continuerà a ricorrere alla propaganda, alla colpevolizzazione dell’Occidente e a una presunta guerra difensiva della Russia. Ci siamo abituati a considerare normale che il leader di un regime autocratico non dica mai nulla che assomigli alla verità. Ma senza che la realtà, così com’è, si faccia in qualche modo spazio, non c’è possibilità di pace. 

Putin non è riuscito a circondare completamente le forze ucraine nel Donbass. L’esercito russo ha fatto progressi, ma minimi. E gli ucraini, con una tattica che ricorda da vicino la guerriglia, hanno compiuto operazioni offensive. La liberazione di Kharkiv ne è stata un chiaro esempio. Putin ha raccolto tutte le forze a disposizione per un’ultima spinta che fosse definitiva e travolgente, ma ancora una volta non è stata sufficiente. Secondo alcune informative, diversi alti comandanti hanno respinto gli ordini di sovraesposizione dei propri soldati. 

È possibile che la seconda fase della guerra assomigli alla prima. È sulla buona strada per diventare un lungo conflitto. Kiev, dopo tutti i combattimenti e le vittime, non può accettare che Mosca mantenga parte del Paese. Putin non può ritirarsi, per lui è inaccettabile, al momento, l’idea che il suo esercito debba ripiegare. Sarebbe di grande aiuto se ammettesse realisticamente che potrebbe dover affrontare una sconfitta disastrosa. Ma prima che ciò accada, se accadrà, Putin potrebbe continuare a causare molti danni al popolo ucraino e potrebbe bloccare i porti del Mar Nero. 

Il cessate il fuoco è molto complicato al momento. Per raggiungere questo obiettivo il prima possibile sarebbe necessario che la guerra non aumentasse di intensità. Qualsiasi soluzione che non rispetti minimamente la libertà degli ucraini può essere chiamata come si vuole, ma non sarà la pace.

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