Se essere bianco è diventato una colpa

In Usa c'è una crisi senza precedenti. Il politically correct e il suprematismo seminano disuguaglianza. Si spara ovunque. E si muore. Serve un nuovo Lincoln

“Morte, dov’è la tua vittoria?”. Guardando le notizie, istintivamente verrebbe da dire: “ovunque”. Se dovessimo rispondere per quello che in giornate come questa è il morso sulla nostra carne delle cose che succedono, per quello che si respira e ci riempie i polmoni, la morte apparirebbe come la grande protagonista incontrastata, inarrestabile, invincibile. E non siamo in Ucraina, dove nella quotidianità i colori della vita sono sbiaditi, quasi cancellati se non per le macchie di sangue che riempiono lo sguardo ad ogni bomba ed ogni sparo. Siamo in America.

Siamo in America dove le nostre bandiere presenti ovunque, dal pianerottolo di casa all’altare della chiesa, oggi languiscono a mezz’asta per raccontarci del milione di vittime del Covid, anche volessimo ignorarlo. Siamo in America dove si spara con la stessa facilità con cui si fiata, quasi senza neanche pensarci su. In America dove sempre più esseri umani sembrano perdersi in pensieri e sentimenti che si aggrovigliano in una matassa confusa, caotica, senza trovare una direzione verso cui muoversi se non la strada della violenza verso gli altri o se stessi.

Come nel caso di Payton Gendron, il diciottenne “white supremacist” autore della strage di Buffalo di qualche giorno fa. Un altro “hate crime”, un altro crimine in nome della razza. E questo mentre il Paese continua a cercare affannosamente la risposta al problema della disuguaglianza, non trovandola ed anzi creando ancora più insensate e laceranti disuguaglianze. Operazioni da giocolieri alla ricerca di un equilibrio impossibile da raggiungere perché inseguito a suon di rivalse. Un esempio: tanto per capirci, oggi come oggi un ragazzo bianco fa molta più fatica ad essere ammesso ad un college di valore rispetto ad uno che appartiene a una minoranza. Perché? Perché è bianco. Come una volta era una colpa essere di colore (e ancora in tanti luoghi è così), oggi lo è essere bianco.

Muore anche l’esperienza di McDonald in Russia, giunge alla fine il sogno di costruire tra due mondi un ponte fatto di business (e di hamburger). La borsa, il salvadanaio di tutti gli americani, manda segnali di cattiva salute. Anche il tema della vita, rilanciato da quel parere in bozza sfuggito alla Corte Suprema, sembra portare segnali di morte per l’Unione. C’è già chi tratteggia una linea rossa tra Nord e Sud dove correrà il confine tra aborto legale e fuorilegge. Come fossimo di nuovo nel 1861, ai tempi di Abraham Lincoln e Jefferson Davis. Era il 19 novembre 1863, quando Lincoln parlò a Gettysburg dove oltre 50mila soldati erano rimasti sul campo nella più feroce battaglia fratricida della civil war. Chiesero a Lincoln di parlare e lui lo fece: due minuti, 275 parole.

“Un tempo di prova” – disse il presidente dell’Unione – per capire la ragione di esistere del giovane paese, per capire il nuovo “grande compito” a cui tutta quella devastazione, tutta quella morte chiamava Nord e Sud. “Questa nazione”, concluse, “sotto Dio avrà una nuova nascita di libertà e il governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non perirà su questa terra”.

“Sotto Dio”, cioè nella consapevolezza di non essere i padroni del mondo, di non essere i padroni del proprio destino.

Come si legge nell’accorato appello di San Paolo agli uomini ed alle donne di Corinto: “O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo dardo? Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge; ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”.

“Sotto Dio” tutto è possibile, anche vincere la morte.

God bless America! Se solo ne fossimo un briciolo coscienti quando lo diciamo.

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