Il fatto che l’assemblea dei vescovi italiani, che ha proposto al Papa il nome del cardinale Zuppi quale presidente della Cei, abbia concluso i propri lavori varando, di fatto, una commissione di inchiesta indipendente sugli abusi sessuali del clero italiano nell’ultimo ventennio è decisamente una buona notizia.

Non è possibile, infatti, pensare al futuro senza fare i conti con il dolore del passato, anche recente, che ha coinvolto un numero imprecisato di vittime ancora da ponderare: solo il coraggio della verità può rimettere la comunità cristiana nella posizione ottimale dinnanzi al problema, fornendole gli strumenti più adeguati a superarlo e a voltare pagina.

Tuttavia, ad un certo punto, occorrerà comprendere che le strutture, le commissioni e le inchieste non bastano per comprendere quanto va emergendo nella Chiesa a tutte le latitudini e le longitudini del mondo. Esiste un problema legato all’educazione cattolica che certamente non esaurisce il delicato tema degli abusi sessuali del clero, ma che – se affrontato – potrebbe portare a un’impostazione molto diversa della formazione per i futuri sacerdoti. Lontani dalla pretesa di chiudere un argomento che meriterebbe il confronto e l’apporto di tutti, è possibile fissare un punto di inizio della discussione nella parola “desiderio”: la Chiesa cattolica, almeno da sant’Agostino, ha un problema con il desiderio.

Intendiamoci: fin dall’antichità il desiderio erotico, eros appunto, era solito essere associato al pericolo dello thanatos, dell’impulso di morte, in quanto desiderare fa emergere nell’uomo una forza che lo spinge all’azione, imprudentemente, senza spazi di manovra per la povera ragione. Virgilio ne parla come di un “furor” che acceca la capacità elementari dell’uomo. Il nuovo testamento conia per questo particolare tipo di desiderio il termine di “concupiscenza”, parlando di concupiscenza degli occhi, della carne e della vita. Agostino, infine, traduce la sua fragilità biografica sull’argomento in una dottrina, collegando questa modalità di desiderare – un desiderio orientato al possesso – al peccato originale. Nel tempo la distinzione tra desiderio e concupiscenza si è fatta sempre più sottile fino a diventare, dall’epoca della controriforma, esattamente sovrapponibile: il desiderio sessuale, si è detto, coincide con la concupiscenza e quindi il suo esercizio è sempre biasimabile e biasimato.

In questa visione l’unico riparo alla malvagità dei desideri è il matrimonio, conosciuto anche come “rimedio alla concupiscenza”: solo sotto l’ombrello del sacramento la sessualità diventa veramente umana. Giovanni Paolo II, non ancora Papa, cercò di superare questo assioma nel suo capolavoro Amore e Responsabilità, introducendo un doppio fine per il desiderio sessuale, non solo quello legato all’uso dell’altro – l’utor – ma anche quello legato al godimento del bene, il fruor. Questo approccio non è entrato nel vocabolario teologico e anche il Catechismo del 1992, pur recependo tutta la parte che mette la persona in guardia da desideri intrinsecamente disordinati che portano alla morte dell’umano, non propone un approccio positivo alla sessualità.

In poche parole il tema è questo: ad oggi non esiste, al di là del matrimonio, uno spazio riconosciuto come positivo per l’esercizio attivo della sessualità, uno spazio in cui l’uomo possa conoscersi e riconoscersi, uno spazio in cui possano emergere eventuali distorsioni dell’impulso sessuale. Finché la Chiesa non farà i conti con la positività del desiderio, e finché non avrà trovato una forma che, in sintonia col Magistero e la Scrittura, assicuri l’esercizio della sessualità, il tema della pedofilia sarà sempre e solo un tema repressivo, privo di politiche veramente preventive.

Questo spazio, si badi bene, potrebbe anche non esistere. Ma occorre dirlo, traducendo in un alfabeto moderno tutto l’insegnamento della Tradizione. È semplice affermare che “il problema non sussiste, siamo solo di fronte a fenomeni di perversione” oppure sostenere che “il problema è ovunque, occorre che i preti si sposino”. Molto più difficile è fare un cammino dentro il problema e dentro gli interrogativi che esso pone. Senza dare per scontato niente. Senza pensare che, in fondo, basti una commissione per mettere tutto a posto.

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