L’io al lavoro, il lavoro per l’io

Sono molto interessanti i risultati delle ricerche che esaminano l'influenza delle competenze non cognitive nelle attività lavorative, analizzando le richieste delle imprese

Si è parlato molto anche in questa sede dell’incidenza delle cosiddette competenze non cognitive, o socio-emotive, o character skill, sull’apprendimento a scuola e in università e sullo sviluppo globale della persona. Non meno interessanti sono però i risultati delle ricerche che ne esaminano l’influenza nelle attività lavorative, analizzando le richieste delle imprese. 

A partire dagli anni ’90, è cresciuta l’importanza dei computer che hanno sostituito le persone in un numero crescente di lavori routinari a bassa o media qualificazione, e hanno supportato l’attività dei lavoratori a elevata qualificazione. David Deming, un economista di Harvard che studia lo sviluppo delle competenze, e le conseguenze sulle possibilità di carriera e sulle disuguaglianze, ha incominciato a interessarsi del fatto che la domanda di lavoro pone un’enfasi crescente sulle “soft skill“: la richiesta di professioni che richiedono elevate competenze tecniche è cresciuta, ma meno. Nella sua ricerca, Deming ha trovato che era aumentata la domanda di professioni che richiedono competenze relazionali e sociali, parte rilevante delle non cognitive skill. Tali competenze non possono essere sostituite dai computer: “Le interazioni umane richiedono una capacità che gli psicologi definiscono teoria della mente, la capacità di attribuire agli altri modi di pensare basandosi sul loro comportamento, o come si dice di “mettersi nei panni degli altri”.

La capacità predittiva di lavoro e reddito delle competenze sociali era molto superiore a metà degli anni 2000 rispetto agli Ottanta e ai Novanta, mentre quella delle competenze cognitive era leggermente diminuita. L’ipotesi di Deming è che i lavoratori con competenze sociali più elevate possono specializzarsi e cambiare lavoro (svolgere mansioni diverse) in modo più efficiente, e si chiede se le competenze sociali sono diverse da quelle cognitive, o sono semplicemente misure diverse di una medesima dimensione sottostante.

Anche in Italia le competenze sociali sono molto gradite alle imprese, come confermano i dati di Progetto Excelsior, che le richiedono per un numero crescente di professioni, e quindi si sono sviluppati molti strumenti per misurare quella che gli psicologi chiamano intelligenza sociale ed emotiva: le ricerche  dimostrano che l’esito  di un test disegnato per misurare l’intelligenza sociale è un predittore della produttività di un gruppo di lavoro, anche tenuta sotto controllo l’intelligenza media dei membri del gruppo. I ricercatori hanno cercato anche di mettere a punto degli strumenti di controllo degli interventi: l’associazione per lo sviluppo dei talenti (ATD) ha elaborato un competency Model in cui vengono descritte minuziosamente le competenze (interpersonali, personali e tecnologiche) necessarie per la maggior parte dei ruoli professionali. Il modello viene aggiornato ogni 5/7 anni: l’ultimo è del 2019.

Che cosa spiega la crescente importanza delle competenze sociali nel mercato del lavoro? Una prima ragione è che i computer fanno ancora fatica a simulare le relazioni umane, che sono spesso frutto di un processo inconscio, e si sono evolute in migliaia di anni. Le interazioni sono flessibili, non routinarie, e questo è il vantaggio degli uomini sulle macchine, vantaggio che dovrebbe essere ridiscusso alla luce della trasformazione introdotta dell’intelligenza artificiale. Nel lavoro di gruppo, che si basa sul coordinamento di competenze diverse, chi ha elevate competenze sociali riduce i costi della condivisione dei compiti (trading tasks). Un limite di questi studi è che prendono in esame prevalentemente le competenze considerate importanti dalle imprese: non è detto che ce ne siano altre, anche più importanti. Recentemente si è introdotta l’idea che bisogna far crescere le performance non solo in termini economici, ma in termini di sviluppo personale, o addirittura di “felicità”, ed esiste una corrente di economics of happiness, titolo di un volume di Daniel Kahneman, uno psicologo israeliano che ha vinto nel 2002 il Nobel per l’economia.

Questo percorso di apprendimento può prendere varie forme: imparare e lavorare, imparare attraverso il lavoro, imparare a scuola e poi lavorare: gli estremi sono il tradizionale apprendimento scolastico da una parte, e la valorizzazione dell’esperienza. Posto che sarebbe un errore ignorare gli aspetti cognitivi dei percorsi tradizionali (si potrebbe dire che le NCS sono in realtà competenze non esclusivamente cognitive), possiamo chiederci se e come oggi in Italia se ne tiene conto, e che ruolo giocano nel garantire che i ragazzi acquisiscano una formazione che oltre a farli crescere come persone li metta in grado di trovare e svolgere un lavoro.

Nell’educazione professionale, le competenze si acquisiscono attraverso una combinazione di apprendimento teorico e lavoro, in un equilibrio dinamico che viene continuamente rimesso in questione, e i risultati dipendono da quello che si è appreso, che non è solo quello che abilita a trovare il primo lavoro, ma che serve per muoversi nel mondo del lavoro nel corso della vita (flessibilità).

Il curricolo reale è quello che tiene conto del contesto (cultura, struttura, tecnologia; economia regionale, demografia, struttura della domanda di lavoro), non solo degli elementi progettuali. Il percorso tradizionale è “partire tutti insieme, arrivare tutti insieme”, ma questo è discutibile, perché i tempi di apprendimento sono influenzati da molteplici elementi, come la motivazione, il percorso precedente, le relazioni fra gli studenti e con il docente, le stesse attitudini personali.  Per questo il mercato del lavoro tende a non sopravvalutare il curricolo: in particolare, il titolo di studio ha visto diminuire il suo peso come criterio di selezione sul mercato privato, e qualcuno asserisce che serve a tenere fuori chi non lo possiede, piuttosto che a far entrare chi lo possiede. 

Ci chiediamo allora se in base a queste considerazioni non sarebbe opportuno pensare seriamente ad una trasformazione del curricolo, o meglio del percorso che porta dalla formazione al lavoro (del resto l’originale significato del termine curricolo era precisamente questo), non solo valorizzando gli aspetti operativi, ma includendo a pieno titolo le competenze socio emotive.

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