Giugno porta sempre con sé una grande voglia di libertà: le scuole che finiscono, le giornate al loro apice, il bel tempo, le temperature che invitano a vivere con più convinzione tutte le forme di socialità. È il mese dell’apparente liberazione, dell’inganno estivo che promette che la vita, quella dura e reale dei plumbei mesi d’inverno, è finalmente finita e alle spalle.
Vivere nella libertà oggi, per tanti adolescenti e giovani – ma anche per non pochi adulti –, significa potersi finalmente “sfasciare” di alcool, di fumo, di sesso. Finisce la scuola? “Ci ubriachiamo”. Finiscono gli esami? “Stasera mi devasto”. C’è una laurea o un compleanno? “Serata matta”. Non si contano i luoghi e i locali dove girano cocaina, eroina e metanfetamine a buon mercato. Come non si contano i genitori che, pur di avere i figli nella cameretta, permettono che quella cameretta sia adibita a teatro di qualunque cosa.
Certo, ogni zona ha i suoi modi di dire, i suoi tempi, i suoi riti, ma il succo è sempre lo stesso: vivere nella ritrovata libertà dell’estate significa poter finalmente tagliare ogni ponte con quella consapevolezza mentale che richiede la fatica, il lavoro, l’impegno. Essere liberi, in quest’ottica, significa non essere più presenti. Così la settimana del salone del mobile di Milano è quasi più nota per gli eventi esclusivi del Fuorisalone, e per la trasgressione che a volte li accompagna, che per il salone in sé; le manifestazioni d’orgoglio della comunità Lgbt che caratterizzano tutto il mese diventano opportunità per i più disparati tipi di eccessi invece che opportunità di riflessione. Divertirsi vuol dire essere liberi da tutto e la libertà oggi non è altro che assenza, alterazione di rapporto con il presente.
Un moralista potrebbe guardare a tutto questo con gli occhi stigmatizzanti della sua verità, con lo sguardo di chi indaga e sanziona i comportamenti, con la presunzione di chi ritiene che educare coincida con il miracolo, ottenuto attraverso schemi rigidi e ferrei, di cambiare le abitudini, le scelte, la mentalità. È quello che pretende a volte la scuola, quando si convince che ripetere le regole e le giuste opzioni sia la strada per formare cittadini e coscienze, quasi che fossero le parole a cambiare la vita. Ed è quello che caratterizza non pochi adulti, che si illudono di aver esaurito il proprio compito educativo solo perché una classe scrive loro parole dolcissime su un biglietto di fine anno.
Eppure nella storia ha fatto spesso la sua comparsa anche un’altra idea, un’altra strada, la strada di Dio. Tale metodo non consiste in un ennesimo schema, ma si incarna in tre vicende molto interessanti e originali. C’è anzitutto Abramo che, politeista e poligamo, riceve da Dio l’invito a partire non per trasformarsi in un uomo eticamente migliore, ma per vedere esaudito il desiderio del cuore. Dio inizia la storia della salvezza non modificando i comportamenti di Abramo, bensì parlando al suo desiderio. Se uno non vede il desiderio dell’altro, che serpeggia dentro l’apparente nulla in cui siamo immersi, vivrà un tempo arrabbiato, sempre in polemica con quello che accade, mai capace di stare in silenzio e attendere i tempi di chi ci cammina a fianco.
C’è poi Mosè che, tornando dal monte con le tavole della legge, vede il suo popolo adorare un vitello d’oro. L’intervento del profeta è questa volta duro: distrugge il vitello e lo sbriciola nell’acqua, obbligando Israele a sentire il sapore della propria idolatria. Mosè è l’altro nome della realtà: chi vive nella dimenticanza di sé ad un certo punto paga quella dimenticanza assaporando una serie di conseguenze fisiche, esistenziali e mentali che non sorgono da nessuna punizione o pratica educativa, ma fioriscono nella realtà stessa perché le cose esistono e sono testarde.
E infine c’è Cristo che va molto oltre: Egli si pone davanti agli indemoniati con un bene così grande che i demoni stessi impazziscono e scappano. Più il nostro sì all’altro è grande, più quel sì svela tutto il dolore che l’altro si porta appresso, al punto che quello che ci appare come un fallimento è in realtà l’inizio della guarigione. Perché a volte amiamo così tanto l’altro e l’altro non capisce o non cambia? Perché quell’amore lo sta semplicemente curando, facendo affiorare nel suo cuore la novità di un amore talmente inaudito che ha bisogno di lunghi tempi e lunghi giorni per essere accettato.
Il tempo degli eccessi, la libertà come assenza di coscienza, non guariscono quindi per un pensiero o per una ritrovata idealità: si guarisce solo partendo dal desiderio, restando fedeli alla realtà e permettendo al sì che Dio dice alla nostra vita di far emergere in noi tutto il dolore del cuore.
Giugno non è dunque il tempo della dissipazione o degli strali moralistici, giugno è una sfida al nostro modo di amare, è un appuntamento per il nostro Io, è uno spazio dove ognuno può fare esperienza di un Bene che è più grande di tutto il nostro dolore. E che offre compassione e tenerezza, senza pregiudizio, anche alla nostra presunta e incompiuta libertà.
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