Il tempo d’appoggiarlo sulla lingua che già mi tremano le ossa: “Qui c’è il mio Signore: Cristoddìo”. E in un battito di ciglia, il mio passato torna a ripresentarsi davanti: vuole incatenarmi ad un destino che non vorrei (più). A questo Pane, il panis angelicum, le mani del sacerdote gli hanno cambiato sostanza: è un “pezzo d’Uomo”, è l’Ecce homo. “Il corpo di Cristo” mi dice il sacerdote mentre il Pane mi si avvicina: “Amen” gli rispondo, e già mi sento piccolo, inadeguato, solcato dal logorìo dell’età e dei vizi. 

Eppure Lui non scappa: è un cacciatore (d’anime), s’addentra nel nascondiglio del mio corpo per cogliere e stimolare la mia anima. A guardarmi dentro sono un labirinto insolubile, porto il chiasso di una riunione di condominio, scrivo dappertutto “Proprietà privata. Vietato entrare!”. Eppure Lui, il cacciatore, dentro me vuole entrare. Dentro me, nelle cui vene scorre il sangue di Giuda Iscariota: “Non cerco piacere nelle creature facili, adoro complicarmi la vita!” mi sento rispondere man mano che l’Ostia scende. Mi sbilancia, m’illumina.

Chi mi sta accanto, in fila indiana verso l’altare, non vede altro che un viso scaltrito, buffone, malridotto: mi riservano, magari, occhiatacce oblique. Che al mio Cristoddìo fanno capire volentieri ciò che loro preferiscono tacere: “Congeda la folla perché vada nei villaggi, nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo”. Come dire: “Mandalo a casa, non è degno di te: ci farà svergognare per tutta la città!”. Gli consigliano caldamente, loro a Lui, di tenersi il pane tutto per loro, che gli altri muoiano di fame: cos’importa della pancia dell’affamato – della gola dell’assetato, della pelle indolente dell’ignudo, della sorte di un condannato – quando la tua è zeppa da vomitare cibo e bevande? 

Non si accorgono, loro che gli sono così vicini da bearsi del titolo di discepoli, che manco io vorrei che quel Pane mi desse la caccia: perché, toccandomi, d’improvviso mi misura l’altezza e l’immensità della mia miseria. Non lo vorrei manco vedere che s’avvicina perché, vedendolo, vedo bene chi sono, da dove vengo, verso dove sto andando. 

Non è pane che sazia come quello dei fornai, è un Pane che illumina come un lampione lungo la strada di campagna, nebbiosa e sonnolenta. Glielo dico: “Discòstati da me, che sono un peccatore!” E lui, invece che discostarsi, dice: “Mangiami, per sempre tuo voglio rimanere!”.

E il prete, pur scontento della mia faccia, non può reggere la forza d’urto che gli viene da quel Pane: “Voi stessi date loro da mangiare” (cfr Lc 9,11-17). Il fastidio che avran provato, a dover fare controvoglia quel gesto d’umanità, può lottare soltanto con il gaudio provato dal Cristo nell’abitare nel mio nascondiglio.

Mentre ritorno al mio banco, penso che anche mio fratello Giuda – il porco come dicono in tantissimi – quel Giovedì Santo ha fatto la sua Prima Comunione assieme agli altri del catechismo. Cristo volle farsi mangiare anche da Lui: forse perché avendo già intuito cosa gli balenava nel cuore, fino all’ultimo s’avventurò nel tentativo di salvarlo. Era pur sempre il suo amico, non volle vestirsi proprio all’ultimo da doganiere del Regno di lassù. Sapeva bene Lui, creatore di questo Pane che mai consuma, che “l’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (Evangelii gaudium). Per questo, fino ad ora, è ancora qui a dirmi: “Dai, Marco mio: ricominciamo daccapo. Come i bambini, come i campi dopo l’inverno”. 

Io, quando lo mangio, manco so il male che ho combinato: però sento chi sono diventato per colpa di quel male che ho fatto. Questa lucidità è la prima grazia domenicale dell’Ostia: la grazia dell’evidenza. Senza di lei, è certo, il lampione in me rimarrebbe spento. Mi complimento per la sua audacia, anche per la sua cocciutaggine: un principe meriterebbe un trattamento diverso, lo so. Come ho ben presente, appena lo sento entrare, il non sconto che mi premette: “Vanno i buoni, vanno gli empi; ma diversa ne è la sorte: vita o morte provoca (l’Ostia)” (Sequenza).

Come dire: “Io vengo da te, però tu dammi una mano a rimanere in te. Altrimenti non mi riesce di realizzare il mio sogno. Salvo ti vorrei”.

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