D’accordo, ironizzare sul famoso proclama pentastellato del 2018 dal balcone di Palazzo Chigi – “oggi abbiamo cancellato la povertà” – è come sparare sulla Croce Rossa. Ma quando ci vuole, ci vuole. Si tratta di imparare dagli errori: la povertà non si batte per via assistenziale. Magari con un po’ di euri si aiuta il povero cristo a mangiare qualcosa anche alla terza settimana del mese, e non è che sia piccola cosa. Ma abolire la povertà…
Infatti l’Italia resta piena di poveri ed è facile prevedere che l’anno prossimo faremo la conta di un sacco di nuovi poveri. Le cifre (relative al 2021) sono state date pochi giorni fa dall’Istat. Non stiamo qui a dettagliarle (il Sussidiario ne ha già dato notizia nei giorni scorsi con l’articolo di Giovanni Bruno e l’intervista a Luigi Campiglio). La sostanza è che quasi un decimo della popolazione italiana è in quella che tecnicamente si chiama povertà assoluta, in pratica non ce la fa a vivere neanche al minimo di sopravvivenza senza un aiuto. Sono poco meno di 6 milioni; 1,4 milioni i minori in questa situazione. Sono in povertà assoluta l’8 e passa per cento delle famiglie con un figlio, il 22% quelle che ne hanno tre o più. A queste condizioni, chi saprà frenare la denatalità?
Ci sono due elementi da tenere bene in considerazione. Il primo è che queste famiglie povere non hanno risparmi, e quindi non hanno risorse per passare la crisi, ammesso che passi. Ora, si sa che i risparmi degli italiani sono cospicui e che molti sono tentati di metterci le mani: attenzione, sarebbe un devasto.
Il secondo è che sono meno colpite dalla povertà assoluta le famiglie con un componente anziano: perché di solito ha la sua pensioncina, frutto buono degli anni buoni. Occhio alle tentazioni di mettere le mani anche lì. I nonni, se non gli togli i quattrini per la benzina e l’Imu, sono asilo nido, trasporto scolastico, aiuto allo studio dei nipoti, e tanto altro: in una parola, sono mezzo welfare. Chiusa la parentesi.
La povertà non è solo assoluta, c’è anche quella relativa. Wikipedia vi spiega i parametri europei, in sostanza è povero relativo uno che arriva alla terza settimana, digiuna la quarta, e basterebbe un buff e perde il lavoro.
Poi – bisogna dirla tutta – ci sono quelli che, al di là dei parametri, sono poveri in canna anche se ai misuratori ufficiali non sembra. Poniamo, un nucleo monoreddito: lui operaio da 1.300-1.400 al mese, lei sprovveduta casalinga con poca salute, un figlio alle professionali, una figlia in seconda elementare con problemi di apprendimento, mutuo di 600mila al mese per trilocale al terzo piano senza ascensore di un vecchio palazzotto anni 60 in una frazione periferica di un piccolo Comune del Milanese. Un figlio costa 350 euro al mese solo per le spese ineliminabili (vitto, vestiario, scuola; con il resto delle spese la media italiana è di 640 al mese). Facciamo due conti: 600 per il mutuo, 700 per i figli, fa già 1300, e lo stipendio è andato. Poi l’auto, le bollette, vitto e vestiario per papà e mamma… Come ci si sta dentro? Con i salti mortali. Ma ha un Isee di 9.000 euro.
Il programma europeo di aiuti alimentari (Fead, gestito in Italia dall’Agea e distribuito dai Banchi alimentari) richiede che il beneficiario abbia un Isee non superiore a 6.000. Morale: con solo parametri, solerti burocrati e raffinati algoritmi non se ne esce.
Neanche con solo i soldi se ne esce. Sia perché non ce ne sono tanti e ce ne saranno sempre memo, sia perché i soldi devono principalmente, ovunque sia possibile, andare in direzione dell’investimento sulla persona, non della spesa in aeternum. Occorrono (anche) presenze, uomini, relazioni umane, iniziative dal basso. C’è una parola che compendia l’idea: sussidiarietà.
Uno studio condotto quest’anno dalla Fondazione per la Sussidiarietà, che sarà pubblicato in luglio, mostra che c’è un grado molto elevato di relazione tra la fiduciosità della persona, il coinvolgimento in realtà attive e lo sviluppo sociale, cioè il beneficio comune finale.
Una recente visita alla Cooperativa sociale Solidarietà e Servizi di Busto Arsizio mi ha confermato quanto avevo visto anche altrove, e cioè che anche con persone disabili e autistiche è possibile realizzare un percorso di promozione umana verso il massimo di autonomia e di lavoro possibile, quest’ultimo dentro le regole del mercato. A due condizioni: una realtà trainante di persone con una forte motivazione ideale e un congruo investimento sulle persone.
La via di altre tasse per rimpinguare la spesa pubblica sarebbe una via suicida. Strozzare il cosiddetto ceto medio, ammesso che ci sia ancora, fa solo male ai più poveri e ai più giovani.
La via è quell’altra: sussidiarietà (nessun servizio solo pubblico farà mai quello che ho visto in Solidarietà e Servizi, ma che è lo stesso di tantissimi enti del Terzo settore) e interventi su istruzione, introduzione e motivazione al lavoro per i giovani.
Lascia perplessi che la politica, di governo o di opposizione, eviti di parlarne. Eppure è urgente. Con l’inflazione al 6% e le disastrose ricadute della guerra in Ucraina, c’è da aspettarsi una crisi epocale mai vista. E non credo che ci voglia Cassandra per prevederlo.
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