Chi farà giustizia?

La giustizia, anche quando fondata su un giusto processo, non può cancellare il male subito, che continua però a chiedere una riparazione

Rohan Bolt ha cercato di ricostruire la sua vita per un anno dopo essere entrato in prigione nel 1996. È stato condannato insieme ad altri due uomini per aver commesso un duplice omicidio alla vigilia di Natale. La libertà di cui gode è la libertà in un mondo molto diverso da quello in cui ha vissuto più di due decenni fa. Anche lui è cambiato molto. Non è più quell’uomo ancora giovane che difendeva la sua innocenza, ma è entrato in quella fase della vita in cui tutto comincia ad apparire diverso: ha compiuto 60 anni. 

Bolt è una delle tante vittime di un “errore giudiziario” negli Stati Uniti. L’accusa ha nascosto informazioni decisive sul vero autore del crimine. Bolt cerca di ricostruire la sua vita. Carlos De Luna, un ispanico di 23 anni condannato a morte nel 1983 per un crimine che non ha mai commesso, non può più farlo. Chi renderà giustizia a Bolt e De Luna? Chi renderà giustizia alle vittime di errori giudiziari, alle vittime dell’iniquità? 

Nel discorso tenuto la scorsa settimana in occasione del suo dottorato honoris causa all’Università Complutense di Madrid, Marta Cartabia ha sottolineato il grande cambiamento che comportò per la cultura greca il passaggio da una giustizia segnata dalla reattività e dalla rabbia a una giustizia amministrata dopo un processo equilibrato. Il ministro della Giustizia italiano, basandosi su Eschilo, ha sottolineato la differenza che implica un processo in cui “dominano il logos, la parola, il ragionamento, la persuasione, la prova. Il ragionare prende il posto dell’istinto vendicativo. La pacatezza e la riflessione, quello della reattività. L’argomentare e il motivare, quello del mistero. Le prove, la verifica dei fatti e delle circostanze prendono il posto del giuramento e di altre ritualità performative”. 

C’è molto da imparare da questo inizio di civiltà occidentale segnato dall'”Audiatur et altera pars: le regole processuali fondamentali del giusto processo basate” sulla virtù di “ascoltare l’accusa, ascoltare la difesa, ascoltare le parti, ascoltare i terzi interessati […]. Ascoltare, prima di tutto, poiché, con le parole di Hannah Arendt, ‘nell’ascolto, faccio esperienza del mondo, ovvero di come il mondo appaia da altri punti di vista. In ogni doxa si manifesta il mondo. Essa non è mera opinione’.

Né Bolt, né De Luna hanno avuto un giusto processo. Immaginiamo che fossero colpevoli, che la condanna fosse perfettamente giustificata. Chi avrebbe reso giustizia alle vittime? Una sentenza fondata non libera completamente dal male sofferto. L’intervento dello Stato di diritto è necessario ma non sufficiente. “L’insoddisfazione – ha sottolineato Cartabia – e il risentimento di fronte alla pronuncia del tribunale […] si radicano in questa necessaria imperfezione della giustizia umana”. La liberazione passa solo attraverso “una giustizia che guarda oltre“, che “è orientata al futuro piuttosto che pietrificarsi su fatti passati che pure sono incancellabili”. È necessaria “una giustizia volta a ri-conoscere, ri-parare, ri-costruire, ri-stabilire, ri-conciliare, re-staurare, ri-cominciare, ri-comporre”. Solamente se la giustizia è “caratterizzata dal prefisso ri– che allude alla possibilità di una rinascita […] apre una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità”.

È necessario immaginare il risveglio di Bolt dietro le sbarre per 24 anni o l’insonnia perpetua di una vedova di una vittima dell’ETA. È necessario ricordare Nelson Mandela nella sua cella. Sappiamo, perché capita a tutti noi, che è inutile rifiutarsi di ascoltare tra tutte le voci una che chiede una ri-parazione completa ed esaustiva. Quella voce non esige un ritorno all’attimo precedente al danno subito, ma un momento nuovo. È inutile voler rispondere a quella voce con un monologo volontarista costruito con materiali antichi. È inutile anche abbandonarsi a una disperazione e a una dimenticanza che sembrano dolci. La voce riappare, tra tutte le voci, costante, insistente. Chiede una ri-costruzione impossibile. E porta la vittima, porta tutti noi, perché siamo tutti in un certo senso vittime, a una situazione contraddittoria: non c’è modo di metterla a tacere e non c’è modo di risponderle seriamente. 

La cosa sorprendente è che questa contraddizione può essere una luce nella notte insonne di coloro che hanno sofferto il male. La mancanza di una riparazione definitiva ci fa capire come siamo fatti. Le soluzioni intermedie o l’idea di riparazione (non la realtà della riparazione) ci lasciano ancora incatenati al male da cui vogliamo liberarci. Intuiamo che né un viaggio spesato verso tutte le galassie dell’universo, né un cielo pieno di dolci ore metterebbero a tacere la voce che risuona tra tutte le voci. In realtà non dobbiamo metterla a tacere, solo quella voce ci permette di riconoscere la riparazione quando arriva. Solo quella voce ci permette di comprendere continuamente la dimensione (mancanza di limiti) di un’autentica riparazione.

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