La scuola italiana è un processo al 50% fallimentare. Un cinico la definirebbe una fabbrica dell’ignoranza. Non esageriamo. Il fatto è che metà degli studenti che finiscono le superiori sono impreparati. Le prove Invalsi, che non saranno il vangelo ma certamente sono un indicatore molto serio, hanno misurato il grado di preparazione in italiano e matematica (più inglese) di 2 milioni e mezzo di studenti delle classi seconda e quinta primaria, terza secondaria di primo grado, seconda e quinta superiore.

La percentuale di insufficienti in italiano è in seconda elementare del 28%, per salire al 48% in quinta superiore. Analogamente in matematica non arrivano al livello minimo richiesto il 30% in seconda elementare, e il 50% in quinta superiore. Il crollo della preparazione si evidenzia soprattutto alla fine della scuola media, e prosegue negli anni successivi. Ci sono vistose differenze territoriali, principalmente tra il Nord, dove i risultati sono dignitosi (la maggioranza se la cava), e il Sud e isole, dove sono penosi (qui la maggioranza non se la cava affatto). Altri dati da tener ben presente:  il 13% abbandona le superiori prima del traguardo, e il 9,7% è da considerare “dispersione implicita”, cioè manca delle basi minime per affrontare l’università. Non è un caso che per numero di laureati in Europa fa peggio di noi solo la Romania.

Di tutto questo i media hanno dato notizia, il più delle volte con spazi prossimi al minimo sindacale e dibattito zero. Una parte di essi, non proprio tutti per fortuna, ha messo l’accento solo sul confronto dei dati di quest’anno con quelli immediatamente precedenti, cioè gli anni del  Covid e della didattica a distanza, rintracciando un qualche zero virgola di meno peggio rispetto al 2020-21, tanto ovvio quanto poco significativo. Ma utile, questo sì, per chi ha badato soprattutto, come il ministro Bianchi, a evidenziare la tesi che “tornare in presenza ci ha permesso di frenare la caduta”. Commenti delle forze politiche? Non pervenuti. Commenti di organizzazioni del settore? Della serie: “Servono più risorse”. Capirai che idea geniale.

Ma è lecito o è un tabù riconoscere che siamo di fronte a una vera e propria emergenza nazionale, molto più grave anche, per dire, di quella del gas russo? Perché il calo della qualità dell’istruzione non è nato ieri con la Dad, è un processo che viene da lontano, e non basta una frenatina a un passo dal fondo del burrone, perché c’è un Everest da scalare per riportarci a livelli congrui.

L’impresa è ardua. Perché i ragazzi sono oggi mediamente più indocili e distratti; molti genitori si pongono come sindacalisti dei loro figli; qualche dirigente scolastico (ne ho contezza diretta) ingiunge al corpo docente di non dare insufficienze in pagella “per non avere rogne”; gli insegnanti devono far ricorso a tutta la propria passione educativa (se ce l’hanno), perché bene o male che facciano – purché adempiano diligentemente a tutte le esorbitanti formalità burocratiche – nessun merito (o demerito) gli sarà riconosciuto vita natural durante.

L’impresa è ardua. Ma “più ardua l’impresa, più forte l’ardore”, se vogliamo credere alla scritta sopra il portone della caserma Camandone di Diano Castello (Imperia), già sede (ora dismessa) di un Centro addestramento reclute dell’Esercito italiano dove si addestrò, si fa per dire, il sottoscritto, nel lontano 1976. Comunque alla scritta non credevamo neanche allora, figuriamoci adesso se un appello all’eroismo volontaristico può valere qualcosa.

L’impresa è ardua, e va affrontata con urgenza e raziocinio. Senza continuamente mettere la testa sotto la sabbia. E senza neppure buttare la croce addosso a nessuno, casomai prendendo ognuno la propria porzione di croce in alleanza con gli altri soggetti chiamati in causa, insegnanti, studenti, genitori, dirigenti scolastici in primis. Fin su ai piani più alti. Perché nessuno ha la ricetta e solo insieme si può sperare in qualcosa.

Intanto sperare nel coraggio di porse domande nient’affatto astratte. Tipo: che cosa significa apprendere? Quali sono le condizioni dell’apprendimento? Si possono insegnare solo metodi e competenze e trascurare i contenuti?  L’alunno è un sacco da riempire (poco) o un fuoco da accendere? E l’“accelerante”, come lo chiama la scientifica nei telefilm americani, qual è? Una tecnica da applicare o un rapporto di stima? E quindi come valorizzare le capacità cosiddette non cognitive (character skills) dei ragazzi per favorire le crescita intellettuale e l’apprendimento?

Infine, l’inclusione – che è da anni il mantra della scuola – si ottiene abbassando l’asticella o facendo sentire al ragazzo che “anche tu puoi farcela”?

Un’accurata ricerca condotto da Luca Ricolfi con la Fondazione Hume ha documentato che l’abbassamento dell’asticella – cioè elevare il livello formale di istruzione diminuendo il livello qualitativo – non ha favorito l’inclusione ma aggravato le diseguaglianze (cfr. P. Mastrocola e L. Ricolfi, Il danno scolastico, La Nave di Teseo 2021).

Al contrario l’esperienza di tanti bravi insegnanti, così come quella di centri di aiuto allo studio come Portofranco, testimonia che il rapporto di stima e di accompagnamento maestro-allievo può accende il fuoco. Sono indizi che l’impresa è ardua ma non impossibile, utili per una riflessione e una ricerca comune di nuove strade non più procrastinabili.

Dibattere di banchi a rotelle, classi pollaio e diavolerie varie che ogni anno si inventano diverse per l’esame di maturità? Anche no: abbiamo già dato.

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