Da due giorni il James Webb Space Telescope, il telescopio inviato dalla Nasa e dalle agenzie spaziali canadesi ed europee a scrutare il cosmo, rivela al mondo immagini inedite dell’universo. Inedite per profondità: il telescopio spaziale ha una qualità nettamente superiore al suo predecessore, l’Hubble Telescope, e permette una visualizzazione ad infrarossi che restituisce una percezione diversa dello spazio e dei corpi. Inedite anche per lontananza: Webb punta in questo momento a circa tredici miliardi di anni di distanza, aprendo il nostro sguardo su un tempo infinitamente altro e raccontandoci storie di stelle che in alcuni casi non ci sono più.

Lo stupore davanti a queste istantanee è indescrivibile e occorreranno numerosi esperti per farci comprendere che cosa stiamo guardando e perché quello che stiamo guardando ha un’importanza e un senso.

Tuttavia anche il profano osservatore, incantato da tanta bellezza, qualcosa – senza alcuna pretesa di scientificità – la può dire. Anzitutto ciò che stupisce sono proprio i colori, quelle rifrazioni della luce che normalmente non si considerano nel pensare l’universo: lo spazio attorno a noi non è spento e buio, ma ci sono – in ogni spazio e in ogni tempo – infinite e sorprendenti possibilità di luce. Questo legge il nostro tempo, a volte così barbaramente violento e primitivo, così apparentemente contro l’uomo e i suoi desideri ultimi: non è vero che il nostro è un secolo maledetto, non è vero che viviamo giorni terribili, ma siamo in un guado della storia dove ognuno di noi ha la responsabilità di cercare la luce.

Perché la luce c’è: tutti siamo avvolti dal Mistero, tutti siamo avvolti da qualcosa che a malapena intuiamo, ma che non è buio e privo di senso, bensì custode di una luce tutta da scoprire.

E poi i frammenti: c’è un’immagine del Webb che mostra i corpi celesti come fossero uno specchio in frantumi. Guardare quei frammenti evoca sia la dignità di ogni singolo frammento, sia la nostalgia all’unità che da quei frammenti sembra trasparire. Il teologo Von Balthasar ha avuto, tra le tante, un’espressione particolarmente felice: “il tutto nel frammento”. In ogni frammento della nostra vita c’è tutto. Nel dolore c’è tutto, nell’amore c’è tutto, nella paura c’è tutto, nella malattia c’è tutto.

Ma questo frammento in cui c’è tutto cerca il Tutto e il Tutto non è una costruzione mentale o un particolare afflato, il Tutto è qualcosa di Altro, di Oltre che è il senso del nostro vivere. Noi non piangiamo perché le persone muoiono, piangiamo perché abbiamo nostalgia di questo Tutto in cui l’esistenza non sarà più limitata dal confine della morte, ma abbraccerà la Vita, tutta intera. Così ci sposiamo per nostalgia del Tutto, facciamo l’amore per cercare questo Tutto, lavoriamo per poter raggiungere il Tutto, siamo stelle in cammino verso il Tutto.

Infine, oltre i colori e i frammenti, impressionano quelle che noi chiamiamo forme ma che, in realtà, non sono altro che l’esito di campi di forza che tra di loro costituiscono legami in virtù di qualcosa – una forza, appunto – che li tiene insieme. Il concetto di campo è uno dei più affascinanti della fisica perché racconta come tutto nella vita sia legame, tutto sia rapporto, tutto sia relazione.

È come se ciascuno di noi sprigionasse una forza che genera legami, storie, idee, vite e che quell’insieme di interazioni si rivelino – da lontano – come la forma della nostra esistenza. Pensare che in quelle forme si possa porre una forza nuova capace di attrarre tutto fa comprendere il perché chiamiamo lo spazio “Universo”. Perché è verso Uno che tutto guarda, è verso Uno che tutto tende. È verso Uno che l’occhio di ogni telescopio sguarda per scoprire tra quelle luci, quei campi e quei frammenti l’indicibile sospiro che tiene in vita il mondo.

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