Hamburger, ma senza patatine fritte. Nei Vkusno i tochka sparsi in tutta la Russia i dipendenti indossano divise, lavorano dietro un logo verde e arancione e servono il prodotto avvolto in carta dai colori vivaci, ma la carne non può essere accompagnata da patatine fritte a causa delle sanzioni internazionali. La catena di ristoranti Vkusno i tochka (Gustoso e basta) vuole essere l’alternativa al McDonald’s americano. Gli somiglia in quasi tutto, tranne che nel gusto degli hamburger. È l’espressione delle ragioni per cui la parola cultura, in questo caso popolare, è tornata a essere qualcosa di importante. La cultura è diventata lo strumento migliore per tentare una risposta identitaria alla globalizzazione. La cultura è diventata il campo di battaglia su cui si affermano i principi da difendere.
Il termine “guerre culturali” è stato reso popolare negli anni ’90 dal sociologo James Davison Hunter, che lo utilizzò per spiegare la crescente polarizzazione che si era determinata negli Stati Uniti tra progressisti e conservatori. Alcuni, in seguito, hanno puntato su battaglie culturali per affermare principi come il diritto alla vita (dal concepimento alla sua fine naturale), la differenza sessuale basata sulla natura, la libertà religiosa o di coscienza e la libertà di espressione limitata dal politicamente corretto. Per affermare, in breve, l’esistenza di Dio. Non è strano che in questa lotta grandi valori finiscano per trasformarsi in armi ideologiche che vengono usate contro altre armi ideologiche, sempre più separate dalla vita concreta.
Oliver Roy (La santa ignoranza) ha mostrato come la presunta rinascita religiosa di alcuni movimenti evangelici (al di fuori della tradizione protestante) e di alcuni movimenti islamici sia un’espressione ideologica di secolarizzazione. In questo caso il religioso circola al di fuori della conoscenza, è pura credenza, senza alcun rapporto con la cultura. L’affermazione “Dio esiste”, o “Cristo è Signore”, diventa una formula, una nozione, slegata dalla conoscenza, dall’umano e dalla cultura. Non è una risposta alla secolarizzazione, ma il suo miglior alleato.
La cultura è ciò che ci rende umani. Come hanno sottolineato Peter J. Richerson e Robert Boyd (Non di soli geni. Come la cultura ha trasformato l’evoluzione umana), gli animali non sono in grado di accumulare innovazioni accidentali. Sono capaci di usare una pietra per aprire una noce, ma trasmettono solo l’eredità genetica. Noi uomini miglioriamo la pietra migliore, trasformiamo una scoperta in un’eredità non genetica, in una tradizione, cioè in una continuità creativa che si conserva, si rinnova e si offre a ogni individuo come possibilità.
L’antropologo Ulf Hannerz ha sottolineato più di 20 anni fa che la cultura (tradizione) non può essere considerata come un insieme di strutture chiuse che la persona ripete in modo passivo e deterministico. Questa concezione statica, e in fondo ideologica, alimenta in molte occasioni la difesa che si fa della “cultura occidentale” o della “tradizione giudaico-cristiana”. Hannerz preferisce parlare di “habitat di significato” e afferma che la cultura è sempre generata e articolata nell’esperienza personale. Eliot ha già detto che la cultura è ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
Non c’è cultura senza esperienza. E non c’è esperienza senza conoscenza e senza incontro con il diverso. Byung-Chul Han (L’espulsione dell’Altro) sottolinea giustamente che “viaggiamo ovunque senza avere alcuna esperienza. Impariamo tutto senza acquisire alcuna conoscenza. Si agognano esperienze e stimoli con i quali, tuttavia, si resta sempre uguali a se stessi”. L’informazione e l’intelligenza artificiale, che è una forma di calcolo, non ci mettono di fronte al diverso. “Calcolare è una ripetizione infinita della stessa cosa”. La ripetizione dell’identico “non può generare un nuovo stato. Non si accorge degli eventi. Un pensiero vero ha il carattere di un evento (…). L’evento genera un nuovo rapporto con la realtà, un nuovo mondo, una nuova comprensione di ciò che è”.
Non c’è cultura perché non c’è esperienza, perché non c’è conoscenza, perché non si costruisce un habitat personale di significato. Non c’è esperienza quando si ripete uno schema, quando un’eredità si ripete senza verificarne il valore nel presente. La cultura non nasce da ciò che ciascuno costruisce ripetendo la stessa cosa, identica, senza tener conto della storia, senza un’appropriazione per costruire un habitat personale di significato. Quando si smette di accumulare innovazioni, la cultura scompare, il maestro viene tradito. L’innovazione decisiva è sempre l’ultima, quella che ognuno fa con la propria vita. Ecco perché non c’è niente di più lontano dalla vera cultura, da ciò che è propriamente umano, che una “guerra culturale”.
Le guerre culturali non sono alla mercé dell’unica cosa che davvero innova: l’apparente fragilità delle persone con esperienza. Le guerre culturali non hanno bisogno di persone che declinano il significato nelle loro circostanze, hanno solo bisogno di militanti. L’affermazione di un insieme di valori e affermazioni religiose, che non è diventato un habitat di significato personale, è una forma di secolarizzazione, di manifestazione irreligiosa. Non basta cambiare logo perché gli hamburger siano russi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI