“In Manzoni le due parole ‘provvida’ e ‘sventura’ si fondono, senza, tuttavia, confondersi, in una sola; che è, per l’appunto, quella di Provvidenza; e dan così luogo, invece che a una tragedia, a un’avventura (‘provvida’, per l’appunto). La caduta della ‘esse’ da ‘sventura’, ovvero la sua trasformazione in ‘av’, sono, dunque, la caduta d’ogni ombra di negatività nel disegno di Dio”. Sono parole di Giovanni Testori, tratte dall’Introduzione ai Promessi sposi pubblicata nel 1985 negli Oscar Mondadori. Due sere fa questa parole sono risuonate grazie alla lettura fatta da Roberto Trifirò, attore che nel suo curriculum ha sia Testori che Manzoni (ha interpretato rispettivamente Edipus e Adelchi). “Manzonerie” era il titolo dello spettacolo, un titolo che è un neologismo coniato dallo stesso Testori per indicare quell’insieme di fattori affettivi, letterari e anche geografici, cioè quel vissuto, che lo legavano al grande autore dei Promessi sposi come si trattasse di un cordone ombelicale.

Testori era connesso a Manzoni anche per ragioni di prossimità biografica: non solo i suoi genitori erano di origini lariane, ma Brusuglio, dove l’autore dei Promessi sposi aveva la casa di campagna e dove coltivava la sua passione per la botanica è limitrofa a Novate, paese natale di Testori stesso.

Con Manzoni Testori si è misurato non in posizione adulatoria, ma come continua verifica della propria posizione umana e culturale. Spesso si è trovato ad incalzare il grande scrittore come può accadere ad un figlio inquieto nei confronti del proprio genitore. Ha riversato su Manzoni anche le proprie intemperanze, scegliendo ad esempio di dare una centralità alla figura della Monaca di Monza, che per lui rappresentava il necessario “pilastro nero” della storia, il lato d’ombra che la realtà contiene sempre dentro di sé, ma che il grande autore dei Promessi sposi aveva comunque alla fine ricompreso dentro il grande disegno che supera la “sventura”. Il magistero di Manzoni, e Testori lo ha capito come pochi altri, consiste in quella capacità di transitare dalla “s” di sventura, alla “av” di avventura. È un cambio di suffisso che fa leva sull’affidabilità del disegno di un Altro, e che invece di chiudere la storia dentro un qualcosa di già scritto, la apre alla positività dell’avventura.

Testori coglie l’accadere di questa dinamica dentro la parabola di Renzo (uno dei sette brani letti da Trifirò riguardava proprio lui, il Tramaglino): Manzoni scrive che nel suo recarsi verso la casa di Don Abbondio, procede con “lieta furia”. È un straordinario ossimoro, inconcepibile in ogni prospettiva perbenistica. Invece scrive Testori, “il romanzo sembrerà svolgersi perché Renzo possa, alla fine, coniugare i due contrari, giusto come li aveva coniugati all’inizio; ma, ora, conoscendone i vizi e le virtù oppositive che contenevano, e le difficoltà che comporta il tenerli uniti e trasformarli in atto positivo”. Cioè in un’avventura di vita. Questo a dimostrazione che è grazie a sguardi come quelli di Testori che i grandi libri ridiventano libri necessari e a noi contemporanei.

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