Il Reddito di cittadinanza non verrà cancellato e prevedibilmente neppure ridimensionato nella prossima Legge di bilancio. Non è stato sorprendente l’esito sostanziale del confronto fra il Premier Mario Draghi e il predecessore Giuseppe Conte, oggi a capo dei resti di M5S. Si è trattato di un “incidente” molto mediatico, nato sulla presunta insofferenza di Draghi per Conte e presumibilmente strumentale a un aggiustamento degli equilibri fra i pentastellati, all vigilia della campagna elettorale. Ma vi sono pochi dubbi sul contenuto del chiarimento: anche se – paradossalmente – il Reddito di cittadinanza è stato la bandiera di Luigi Di Maio, candidato Premier nel 2018, Vicepremier e tuttora ministro degli Esteri, ancorché fresco scissionista in M5S.
Grazie al “Reddito 1.0” i Cinque Stelle hanno raccolto il suffragio di un votante italiano su tre e hanno espresso il Premier per tre anni. Nel 2022 molti di quegli elettori – compresi molti fra i 4 milioni di italiani che a fine 2021 erano beneficiari larghi del Rdc – non voterebbero più quel partito per quella proposta. Italia Viva – il partito dell’ex Premier Matteo Renzi che aveva originariamente modellato il “redditi di inclusione” – ha avviato una raccolta di firme per l’abolizione del Rdc. Lo stesso Draghi – che ha preferito infine non intervenire su una questione squisitamente politica a otto mesi dal voto – non ha fatto mistero di considerare “Rdc 1.0” uno strumento mal congegnato, costoso e non equo (al pari del “Superbonus 110”). Ma potrebbe essere proprio questo un contesto favorevole al ripensamento di una scelta costata sicuramente 20 miliardi in tre anni: ma che difficilmente può essere contrastata frontalmente. A maggior ragione dopo due anni di pandemia: a maggior ragione quando la crisi geopolitica ha cancellato le prospettive già difficili della ripresa post-Covid e ha semmai accentuato il nodo strutturale delle diseguaglianze socioeconomiche.
Sarebbe politicamente disonesto affermare – a fine legislatura – che tre italiani su dieci hanno ottenuto “una pensione sociale da sofà” e ora si sentono liberi di voltare le spalle a chi allora gliel’ha promessa e poi garantita. È più serio e produttivo – alla vigilia di una nuova consultazione elettorale – chiedersi se il Rdc ha davvero “incluso” e offerto “pari opportunità” a quegli italiani che non l’avevamo e l’hanno chiesta direttamente nelle urne. La risposta indubitabile è che quel Rdc ha funzionato ben poco al di là di un puro vetero-assistenzialismo. Ma è anche vero che proposte o risposte diverse non ne sono giunte (ci aveva provato il Jobs Act nella legislatura precedente, avrebbe forse avuto bisogno di più tempo, ma gli elettori di risultati non ne avevano visti).
Sull’opportunità di un “Reddito 2.0” – piuttosto che di una sua cancellazione tout court – c’è un consenso vasto, almeno potenziale. E a differenza di cinque anni fa, gli elettori italiani saranno chiamati a valutare (anche) modi diversi di declinare il Pnrr: il Recovery Plan italiano. Soprattutto se la “fase due” della crisi ucraina dovesse sfociare in rafforzamenti del Recovery: magari nel quadro di una riscrittura del Trattati di Maastricht. La leva del Reddito si profila strategica: la Ue stessa ha sempre affermato di ritenerlo un fattore di allineamento fra Italia ed Europa, non un’anomalia.
L’anomalia è spendere male una fetta non trascurabile del bilancio pubblico orientata creare “sviluppo nell’eguaglianza”. L’errore è (continua a essere) il considerare il Rdc solo un veicolo di politica sociale emergenziale e non un input di politica industriale, di politica scolastica, di quella particolare “politica della cittadinanza” che è l’accoglienza dei migranti in una Repubblica democratica.