C’è qualcosa a cui non possiamo rinunciare?

L'astensione è in continua crescita. Brutto segno: è la tentazione di fare a meno della nostra libertà, delegandola a regole e protocolli

Poiché, volenti o nolenti, il 25 settembre saremo chiamati a votare, può valere la pena farsi una domanda semplice, una di quelle domande che in tempi di crisi e di disorientamento generale, può forse servire a riaccendere qualche interesse relativamente alla nostra partecipazione alla vita sociale e politica.

Perché le recenti elezioni comunali ci restituiscono l’immagine di un disinteresse crescente che ha fatto scendere la partecipazione al voto al 54,7%, con un calo di circa il 6% rispetto alle precedenti comunali. L’astensionismo (peraltro non solo nel nostro Paese) è un fenomeno in continua crescita. Nel 1976 in Italia votava il 93%, mentre nel 1987 i votanti calavano all’89%. Alle recenti elezioni politiche del 2018, ha votato il 72,9% degli aventi diritto al voto. E possiamo aggiungere che il clima che in questi giorni si respira non promette sicuramente un exploit di partecipazione al prossimo voto.

Ma in fondo perché dovremmo andare a votare? Se non ci riconosciamo in nessuna delle proposte politiche in campo, se la politica ci ha deluso, c’è almeno qualcosa che vorremmo a tutti i costi difendere? Qualcosa a cui per il bene nostro e dei nostri figli non vorremmo mai rinunciare? Un bene, direbbe Dante, così caro che, come fu per Catone l’Uticense all’arrivo dell’esercito invasore di Cesare, per esso anche la vita può essere data. “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”.

Qualcosa di tale valore che, come è stato per il popolo ucraino, si scende nelle strade, si combatte, si accetta di sacrificare la normalità, la tranquillità, il benessere, disposti anche a veder morire i propri cari o a rinunciare alla propria vita. Balena nel nostro animo un bene di tale entità?                                                                                                                           

Vasilij Grossman, nel suo romanzo Tutto scorre, descrive l’esperienza di questo bene raccontando del protagonista che torna a casa dopo 30 anni di deportazione in Siberia. “Ivan Grigorievic non si stupì che la parola libertà – fiorita sulle sue labbra quando, studente, era finito in Siberia – che quella parola vivesse, non fosse scomparsa dalla sua testa neanche adesso”.

Ucraino di lingua russa, di famiglia ebraica, Grossman sperimentò sulla sua pelle la disumanità dei due totalitarismi del novecento, il nazismo e lo stalinismo. E furono la vita e la storia a scavare in lui quell’intensa e struggente percezione dell’umano che nessuna atrocità potrà mai cancellare. “L’umano nell’uomo ha continuato a esistere su tutte le croci a cui l’hanno inchiodato e in tutte le prigioni in cui lo torturavano”. Sono parole che scaturiscono in Grossman davanti alla Madonna Sistina di Raffaello, che egli vede nel 1955 a Dresda. L’opera  ritrae “una giovane madre con un bambino in braccio”. “La bellezza della Madonna è legata saldamente alla vita terrena, ancor più terreno è il bambino che tiene fra le braccia. La Madonna con il bambino è l’umano nell’umano: sta in questo la sua immortalità”. Davanti allo spettacolo di quell’umano “il ricordo di Treblinka era riaffiorato nel mio cuore senza che me ne rendessi conto. Era lei a calpestare la terra tremante di Treblinka, lei a percorrere il tragitto fino alla camera a gas. La Madonna è entrata a piedi nudi, a passo lieve, nella camera a gas, stringendo il figlio fra le braccia sulla terra tremula di Treblinka. La forza dell’umano nell’uomo è enorme e nemmeno la forma più potente e perfetta di violenza può soggiogarla”. Concluderà Grossman: ”Non abbiamo lasciato morire l’umano nell’uomo. E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo”.

Ben vengano la potenza e l’intensità di Grossman a commuoverci e a svegliarci dal sonno. Perché, come scriveva George Bernanos, “la peggiore minaccia per la libertà non sta nel lasciarsela togliere – perché chi se l’è lasciata togliere può sempre riconquistarla – ma nel disimparare ad amarla”. E oggi la tentazione di fare a meno della libertà, di delegarne l’esercizio a regole e protocolli, è forte. Perché la libertà è un rischio, una vibrazione del cuore, un’assunzione di responsabilità. È un gusto del proprio umano. È un’esperienza da vivere e da custodire.

Ci sono condizioni e fattori che possono favorirne l’esercizio. Paradossalmente il primo di questi fattori non è l’affermazione individualistica di sé, ma al contrario il non restare da soli. La storia ci insegna che nelle relazioni, nelle aggregazioni, nel libero associarsi, gli uomini si sono sempre dati strumenti per affrontare i bisogni, per incrementare il benessere, per organizzare la vita sociale in tutti i suoi aspetti. La libertà è la condizione perché questo operosità sociale possa esprimersi.

Per difendere questa libertà può avere senso anche andare a votare e tenersi cara la democrazia rappresentativa, anzi operare perché sia sempre di più realmente rappresentativa del popolo e dei suoi bisogni.

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