Con la pandemia relegata ad un accidente pericoloso e non più paralizzante, uscire dalle case è il primo obiettivo. Lasciare divani e smart working per l’estate è riuscito a tanti italiani che hanno viaggiato per lo più in Italia ed al rientro torneranno a fruire delle città e più in generale del territorio, non più per svago ma come palcoscenico del lavoro. Troveranno all’incirca la stessa conformazione topografica del 2019.

Nella sua verticalità il Paese ha una tipizzazione dei luoghi che ormai è ben nota. Il conglomerato padano è innervato di arterie che collegano metropoli e cittadine. Soffre per lo smog e agogna ad un trasporto pubblico di massa che riduca inquinamento e tempi di percorrenza. Il centro del Paese ha un microcosmo di località strette tra il mare e gli Appennini che hanno trovato un loro equilibrio e tengono ben stretto il loro modello di sviluppo senza grandi metropoli. Da Roma in giù invece le grandi città come Napoli, Bari, Reggio o Palermo svuotano l’entroterra e creano conglomerati urbani sempre più estesi, sviluppati nel caos normativo e perciò pieni di ogni limite nel loro sviluppo.

Prima della pandemia le smart cities erano l’obiettivo primario delle politiche nazionali e locali. Ripensare le città come luoghi, riprogettarle e dotarle di infrastrutture innovative, ripensando i servizi, dalla gestione dei rifiuti agli spazi di aggregazione. Senonché la pandemia ci ha chiuso in casa per anni e le priorità sono state altre. Ora che lo smart working ha palesato i suoi limiti ed ha scongiurato, con la sua efficacia, un destino di rintanati in casa per sempre, si ripropone la riflessione su come sviluppare le grandi città del Meridione e come rendere di nuovo attrattive le aree interne.

Sul secondo punto è intervenuto il Pnrr che ha destinato fondi importanti alle aree più distanti dell’entroterra al fine di dotarle di infrastrutture materiali ed immateriali che possano ancorare ai quei territori i cittadini, non più perché inibiti da mulattiere scambiate per strade, ma perché accolti da servizi paragonabili a quelli delle città e vocati ad attività produttive che possono garantire una occupazione stabile. Quello che sarà dopo Draghi del Pnrr staremo a vedere, ma la riflessione c’è stata ed il potenziale investimento pure. Ma sulle città del Mezzogiorno si viaggia ancora a vista.

Non è tanto una questione di risorse, come vedremo, è un problema di visione. Come accade a Napoli, dove il sindaco Manfredi non ha la stessa idea del presidente De Luca sull’investimento da fare nell’area Est per disegnare un nuovo accesso alla città. De Luca ragiona di cubature aggiuntive e vorrebbe costruire un nuovo grattacielo della Regione abbandonando a sé stessi quelli vecchi nello storico Centro direzionale, riducendolo a un deserto. Manfredi spinge per usare le risorse sui servizi e non aumentare i volumi. Uno insegue il modello del “costruisci sempre e comunque”, l’altro del manutenere quel che c’è. Questo è il dilemma su cui provare a cercare un equilibrio.

Le città del Mezzogiorno sono assetate di modernità. Ancora molte non hanno una illuminazione Led, che in tempi di risparmio energetico sarebbe un toccasana, gli impianti sportivi sono ampiamente inefficienti e sottodimensionati, non ci sono progetti neppure minimi in attuazione sulla mobilità elettrica, il che vuol dire che tra qualche anno, spariti i carburanti fossili, ricaricare l’auto elettrica sarà impossibile. Sia che si voglia diventare una meta turistica che un centro economico importante, ad esempio, si devono avere servizi adeguati. Nessuno può lavorare in una città che si attraversa in mezzo agli ingorghi e nessun turista può aspettare ore un mezzo pubblico.

Cosa fare allora? La prima esigenza è riportare ai minimi le infrastrutture della viabilità e dei trasporti. I trasporti pubblici vanno spinti verso la quasi gratuità, almeno per i residenti, usando forme di finanziamento che si appoggino su entrate erariali. Le città del Mezzogiorno non possono accogliere nuove cubature senza rinunciare ad altre. Per ogni metro cubo in più servono spazi aperti, luoghi di svago e di fruizione pubblica incrementali per evitare il fenomeno Hong Kong. Le istituzioni devono solo pianificare gli interventi e lasciare ai privati anche la gestione ed il recupero del patrimonio storico ed artistico per renderlo curato e fruibile.

Serve, nella sostanza, uscire alla logica del governante costruttore e lasciare spazio agli investitori privati che con un partenariato pubblico-privato rivisto normativamente possono avere benefici dal gestire gli spazi pubblici avendo l’onere di mantenerli efficienti decorosi. Serve, nella sostanza, che le città siano più simili a ciò che il tessuto produttivo e i cittadini chiedono e per cui vogliono investire, e meno costruite sull’estemporaneità di progetti pensati dall’alto e che spesso si riducono solo a soddisfazioni egotiche del potente di turno o in cattedrali incompiute. Serve fare come a Milano per Porta Nuova, ascoltando gli investitori ed aggiungendosi ad essi. Serve allontanarsi dalle logiche da reame governato dall’alto ed essere più vicini al pragmatismo milanese. Almeno su questo, hanno ragione loro.

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