L’Aldilà nell’Aldiquà arriva sempre con un nome proprio, con un suo modo di dare forma alle scarpe camminando. Non viene senza storia. Il problema, il paradosso, è che quel modo di dare forma alle scarpe, quel nome proprio, non è immortale. Non c’è nessuno veramente immortale. Pensiamo ad Alessandro Magno, di cui dopo 2.300 anni molti ricordano il nome. Ricordiamo come a scuola i nostri occhi brillavano quando ascoltavamo le sue imprese. Un giovanissimo re di Macedonia, con un piccolo esercito, riuscì a sottomettere il grande impero persiano, fondò Alessandria e sciolse il nodo gordiano. Arrivò con le sue truppe al fiume Indo. Aveva ancora uno sguardo fermo, un cuore non del tutto nero, un cuore di qualcuno nei suoi primi 30 anni di vita. Conosciamo già tutta questa storia.
Ma Alessandro è immortale? Il suo ricordo resiste, senza dubbio, e le sue imprese saranno raccontate ancora per molti secoli. Ma, come sappiamo, una brutta malaria, forse un avvelenamento, lo ha tolto da questa vita. Rimanere nella memoria, per quanto si dica spesso in occasione di memoriali e funerali, è tutt’altro che essere ancora vivo. Il ricordo, anche quello dei grandi imperatori, sta svanendo.
Gli antichi, come noto, pensavano che il cosmo, il mondo, i fiumi e le montagne, gli animali fossero immortali. L’acqua appare in un timido ruscello, scorre fino a diventare un grande fiume che viene generosamente consegnato in un mare immenso da cui risale come pioggia. E poi riappare nel ruscello. Un cavallo muore e ne nasce un altro. Tutta la vita era un ciclo per gli antichi. L’uomo, invece, ascende come una freccia e improvvisamente perde vigore fino a quando non cade. Non c’è ciclo. Alessandro era condannato a diventare un fulmine tra due nulla, a meno che, come riuscì a fare, il suo nome non fosse associato a grandi imprese.
Ma gli antichi si sbagliavano. Di Alessandro Magno rimane solo il ricordo, e il ricordo non è l’immortalità. Il ricordo è meno di un fulmine, arriva al presente come un’ombra, non con vita. In realtà, non c’è niente e nessuno d’immortale, il tempo è così.
Non c’è l’immortalità, ma c’è l’eternità. L’eternità è fuori dal tempo, ma è anche nel tempo, è viva in questa frazione di secondo che abbiamo appena superato. In un certo senso non c’è altro che il presente e Alessandro non è vivo in questo istante, non cambia nulla di questo istante. Non ci sono valori immortali: senza presente la compassione per i poveri, la giustizia, la voglia di lavorare, la fedeltà, la lealtà… tutte queste grandi parole sono morte. Difendere i valori immortali è come difendere la memoria di Alessandro.
Ci vuole un modo umano di dare forma alle scarpe in modo che l’Aldilà sia nell’Aldiquà. Ci vuole un modo di parlare, una sensibilità particolare, un certo modo di camminare perché l’eternità dica qualcosa al presente. Ma queste scarpe, e questo è il paradosso, non sono immortali. Possiamo tenerle in un museo, guardarle e riguardarle. Possiamo farne di nuove identiche e camminarci attraverso la stessa città, gli stessi giardini, lungo le stesse scale, lo stesso sentiero che sale alla montagna o che arriva in una baia tra l’odore di timo e rosmarino, ma sarà tutto inutile. I ricordi sono mortali. E quel che è peggio, poiché i ricordi sono mortali, c’è sempre qualche furbo, qualche chierico, qualche intellettuale disposto a gestire e strumentalizzare la memoria.
C’è chi cerca di fermare il tempo, di purificare ciò che è accaduto dalle sue impurità temporali per renderlo immortale e universale. E quindi la mortalità accelera. Chierici e intellettuali diventano i padroni della memoria e finiscono solamente per farla appassire più rapidamente. La morte e la decomposizione sono particolarmente crudeli per i ricordi esatti e precisi cui si vuole dare vita.
Questo è il paradosso: abbiamo bisogno di un presente autentico, di un presente eterno, abbiamo bisogno dell’eternità di tutti i presenti, ma non possiamo fabbricarlo. Tutto ciò che è fatto dalle nostre mani, anche se è grande come quello che ha fatto Alessandro, muore. Siamo in balia del caso. Vogliamo che ciò che è accaduto diventi legge, parte dell’ordine necessario delle cose. E, in realtà, possiamo solo aspettare che si presenti qualcuno che magari non indossa scarpe, ma pantofole, ma che le dia forma come ha fatto il primo. Parlerà con lo stesso accento del primo, ma in un’altra lingua. Dirà cose diverse dal primo, perché quest’ultimo ha parlato in un momento che non è immortale. Dirà altre cose, perché per ogni tempo che c’è una parola, ma useranno la stessa sintassi, la stessa grammatica della vita. E poi sì, l’eterno tornerà a essere presente.
Dimentica tutto il resto amico, non essere distratto. Per quanto parliamo, per quanto ci lamentiamo o per quanto applaudiamo, non avremo di nuovo l’eternità nel tempo. Non c’è altro tempo. C’è un nuovo tempo. E ancora una volta. E così via all’infinito. Fino all’infinito. E noi siamo, amico, apparentemente, in balia del caso.
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