La diversità per il bene comune

La politica, se vuole servire il Paese, deve tornare a rappresentare i corpi intermedi e le forze più vivaci della società italiana

Uno dei grandi “terremoti” che segnano la nostra epoca è il prevalere delle logiche economiche su quelle politiche. Ci si è illusi che l’iniziativa libera, con meno regole possibili, nel creare ricchezza potesse naturalmente produrre benessere diffuso e uguaglianza. Vediamo bene che non è così. Nessuno può negare che un mondo e una società in crisi vadano governati e che l’unico modo per farlo sia prendersi cura della nostra convivenza democratica. Se i danni dell’anti-politica sono evidenti, i limiti della politica nel nostro Paese lo sono altrettanto: 67 governi in 75 anni, con una durata media per governo di 14 mesi. Di recente, una continua conflittualità tra forze politiche, troppo spesso argomentata in modo superficiale, e rivolta più all’emotività che alla capacità critica delle persone, hanno aumentato l’astensionismo e la disaffezione.

Che cosa fare? Non penso ci sia altra strada che ri-tessere il rapporto ideale e vitale dei partiti con la società reale che vogliono rappresentare. La politica deve essere disponibile a rimettere in discussione se stessa, e noi cittadini dobbiamo tornare ad occuparci del bene pubblico.

A questo scopo il primo passo pre-politico è la ricostruzione di realtà sociali, comunità di vita dove le persone possono condividere scopi grandi, stabilire relazioni di fiducia e provare a realizzare insieme iniziative di risposta ai problemi.

Esistono in Italia esperienze in cui la creatività e l’attività di persone, associazioni, realtà sociali formali e informali – riconosciute e sostenute da amministratori realisti e lungimiranti – hanno aperto la strada a politiche d’avanguardia che rappresentano vere e proprie alternative di sistema. Non relegare ai margini queste esperienze, ma favorirne la moltiplicazione e la crescita è la strada maestra per trovare modi originali di costruire.

Ad esempio (ed è l’aspetto migliore della nostra società): anche nelle due ultime grandi crisi, quella finanziaria e quella pandemica, il Terzo settore continua a crescere e conta oltre 375mila istituzioni, il 25% in più in un decennio. Il Rapporto sulla sussidiarietà 2022 documenta che c’è una correlazione molto significativa tra la partecipazione ad attività collettive sussidiarie e lo sviluppo sociale. In particolare per ciò che riguarda l’occupazione e la riduzione della povertà.

In questo modo la cultura sussidiaria può anche rinnovare i partiti, che devono tornare a essere protagonisti come corpi intermedi in nesso organico con le realtà sociali. Da esse devono ricavare proposte per la legislazione e il governo, tornare a discuterle non tanto nei talk show, ma in momenti dedicati in cui approfondire e infine, confrontarsi in un Parlamento non più marginale.

E noi cittadini che cosa possiamo fare? Oltre a ripopolare comunità e corpi intermedi, non dobbiamo perdere di vista l’importanza di continuare a imparare e difendere un lavoro dignitoso. Il nostro è un Paese di poche materie prime, ma tante risorse umane. Il capitale umano è la ricchezza più grande che ha l’Italia. Per venire fuori da questo momento di crisi occorre quindi tornare a investire sulle persone.

Usciamo da anni di opposte tendenze: da un lato interventi assistenziali, anche giusti, ma usati in modo improprio e soprattutto sostitutivi delle politiche attive per il lavoro. Dall’altra parte si è ceduto al neoliberismo che considera la precarietà come un valore, che ha imposto salari bassi e licenziamenti di persone più mature in grado di lavorare, nel disastroso mito della ricerca di uno sviluppo che risparmi occupazione.

Occorre rischiare molto di più sulla responsabilizzazione dei giovani e delle idee nuove, tenendo conto che il loro livello culturale è superiore a quello di 40 anni fa (molti di più oggi fanno l’università). Forse nel breve periodo non si invertirà la tendenza, ma nel lungo periodo certamente questo investimento farà da traino.

Bisogna aiutare tutti, soprattutto i giovani, a essere pronti a rispondere a una domanda di lavoro sempre più orientata alla creatività, al senso critico, alla capacità relazionale. Bisogna capire che non si può mai smettere di imparare.

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