Faccio una riflessione che mi riguarda personalmente. Sono giornalista, lavoro in una radio. Mi piace fare interviste ai politici, sempre a certe condizioni. Mi piace anche, forse di più, fare interviste a persone che hanno storie grandi o piccole da raccontare, storie che servono da contrappunto, che hanno valore e impatto sociale per chi mi ascolta. Con questo, non sto dicendo che le interviste ai politici non siano incidenti.

Qualche anno fa il mio capo redattore, un bravo uomo e un buon professionista, mi chiamò nel suo ufficio. Avevo intervistato un leader del PP (il partito di centro-destra in Spagna) nel programma che dirigeva in quel periodo. I responsabili dell’ufficio stampa del partito si erano lamentati del fatto che le domande e la loro riproposizione erano state troppo dure. Era la verità. Conoscevo gli argomenti che il PP stava utilizzando, avevo fatto un lavoro di fact checking, avevo cercato i punti deboli, le contraddizioni.

Quando entrai nell’ufficio del mio capo gli ricordai che quelli del centro-destra pensavano che la nostra radio fosse la loro casa, il luogo dove potevano dire quello che più conveniva ai loro interessi senza avere davanti qualcuno con una propria ipotesi, qualcuno libero. Gli dissi che non potevamo aprire i nostri microfoni ai politici perché dicessero quanto gli pareva. Questo non era servire la società. Accettò tutte le mie spiegazioni. Era un buon capo, apprezzava l’indipendenza.

Ci furono altre interviste dure e altre lamentele. Pochi mesi dopo intervistai un leader del PSOE (partito di sinistra). Questa volta la chiamata dei responsabili stampa del partito la ricevetti direttamente. Mi dissero che mi avevano fatto un favore concedendomi l’intervista a un socialista, perché questo mi aveva aiutato a presentarmi come “un giornalista pluralista”, che dava voce a tutti. Mi rimproveravano che, davanti a tanta generosità, mi ero comportato male. Continuai a fare interviste difficili e in una di queste la mia interlocutrice era leader di Podemos (partito di sinistra radicale). Fu una conversazione durissima, ma non mi chiamò nessuno. Fui io a chiamarla per chiederle scusa per essere stato violento e ideologico.   

Mi piace fare interviste ai politici se ho una idea su quello che dicono, se ho dati per confrontare le loro dichiarazioni con la realtà, se riesco a mettere in discussione le argomentazioni, spesso vuote, dettate dai loro “spin doctors”, se posso porre domande su cose concrete che interessano la gente. Mi piace fare interviste ai politici, purché mi lascino essere me stesso. Di solito è molto difficile in campagna elettorale.

Ho pensato spesso che le interviste politiche mi dessero prestigio come giornalista, che dessero prestigio alla azienda nella quale lavoro. In realtà è un pensiero ingenuo. I politici tentano sempre di utilizzarti per far arrivare l’ultimo messaggio che pensano utile per loro ed è molto facile diventare un giornalista senza nessun carattere di originalità. C’è il rischio che il lavoro di molte settimane, dedicato ad altre storie, non serva a nulla. Perché i politici non si trasformino in vampiri dell’informazione – in fondo il loro mestiere – occorre intelligenza e una ferma volontà di non cedere neppure un millimetro di spazio senza compiere un lavoro critico.   

Continuano a piacermi le interviste ai politici. Tuttavia, cresce il mio interesse per le persone e le storie cariche di luce, di dramma o di domande. Mi interessano personalmente e interessano ai miei ascoltatori. Sono interviste che mi aiutano a essere un po’ diverso, mi avvicinano alla originalità.