Archie Battersbee, a dodici anni, questa mattina morirà. Il ragazzo, trovato lo scorso aprile con una corda stretta attorno al collo nella propria abitazione di Southend, vive da alcuni mesi grazie alla ventilazione artificiale. I medici hanno riconosciuto subito l’irreversibilità delle condizioni di Archie e hanno fatto richiesta al tribunale locale di procedere alla sospensione dell’uso dei macchinari ritenuti sproporzionati rispetto alle reali possibilità di cura del ragazzo. La madre si è opposta risolutamente, adducendo le ragioni della fede, supportate da un cuore che batte ancora, e le convinzioni di una maternità che non si arrende a lasciare andare il proprio figlio. La corte di giustizia inglese ha però deciso che il miglior interesse del ragazzo non sia la mera sopravvivenza in attesa di un prodigioso recupero, bensì la resa e il congedo da questa vita.

Le situazioni al limite dell’etica, che ciclicamente si ripresentano nelle cronache, costringono l’opinione pubblica all’esercizio continuo di un giudizio che non si lasci trasportare né da un facile nominalismo, la ripetizione pura di verità ridotte a parole e formule da applicare, né da un sentimento stanco che, dal divano di casa, dà il via a qualunque dilemma etico pur di poter voltare pagina e non sentirne più parlare.

Tutto questo succede perché perfino la cronaca è diventata prodotto di consumo, raccontata per suscitare un certo tipo di emozioni che si inseriscono nell’agenda pubblica fino a saturarla. Superato il punto di saturazione prende campo la stanchezza, la noia, che diventa irritazione, sottile violenza verso una dialettica che è stata risolta una volta per tutte nella testa del cittadino medio, quello che – appunto – vive tutto dal divano. A interrompere questo meccanismo perverso ci pensa proprio Archie, il mistero di Archie, un ragazzino di cui ancora oggi non comprendiamo le scelte che lo hanno portato con quella corda legata al collo. Forse fatalità, forse una sfida sui social finita male, forse altro: il primo mistero di questo giovane inglese è il suo cuore, le decisioni intraprese o subite, meditate o prese sull’onda di un impulso.

È questo che anzitutto si abbatte su una famiglia che non possiamo sapere quanto abbia compreso l’accaduto e che, quindi, viva il tutto tra la disperazione e il senso di colpa. Ogni morte ci strappa via un pezzo di noi, ci costringe a trovare nuovi equilibri, nuove ragioni per continuare. Ma la morte di un figlio, per giunta senza un reale motivo, è insopportabile. Una morte che può essere evitata solo grazie all’altro attore di questa storia: la tecnica. L’uomo oggi è riuscito a mettere in campo una tale capacità di cura che il suo stesso operare pone domande inconfessabili circa l’opportunità di sprigionare tutta la potenza di cura delle moderne tecnologie per fermare l’avvento di una morte che appare sicura e inevitabile.

Davvero in questa storia c’è spazio per tutti: per i medici che hanno le loro ragioni, per la mamma che scommette sulla vita, per i fautori di un pieno utilizzo di tutti i ritrovati della scienza in favore della vita di Archie, per coloro che vedono in tutto questo un dispendio sproporzionato di forze e di risorse.

La verità, tuttavia, è in quel letto di ospedale, in quel bambino che stringe la mano alla sua mamma, in quel respiro che come una musica accompagna la vita dei genitori. L’uomo ha deciso di staccare le macchine, eppure nessun medico di quell’ospedale riesce davvero a staccare gli occhi da quella che è una vita. Che non è nostra, che non ci appartiene. E che chiama tutti a superare le assodate opinioni per fare i conti, insieme, dinnanzi ad un cuore che non smette di esserci. E che illumina questo tempo triste. Dove il mistero dell’esistenza si risolve sul divano.

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