“Io sono stato molto vicino, come vescovo, anche a quelli che non credono in Dio. Mi son fatto l’idea che essi combattono, spesso, non Dio, ma l’idea sbagliata che essi hanno di Dio. Quanta misericordia bisogna avere! Bisogna veramente essere a posto con noi stessi”.
È un mercoledì di settembre del 1978 quando Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, pronuncia durante la consueta udienza pubblica queste parole. Il patriarca di Venezia era diventato papa da poco più di una settimana. Il suo pontificato sarebbe stato il più breve del novecento: trentatré giorni. In quell’anno così cruciale per la storia italiana, con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, l’approvazione della legge sull’aborto e l’elezione a sorpresa di Sandro Pertini alla presidenza della Repubblica, si stavano muovendo energie sotterranee che tentavano di lasciarsi alle spalle un decennio di illusioni tristi e di ambizioni frustrate. La secolarizzazione entrava in un nuovo stadio e quel Concilio che la Chiesa aveva pensato per aggiornarsi, e per fermare il nemico alle porte, non aveva dato gli effetti sperati. “Paolo mesto” era chiamato Montini nei suoi ultimi giorni da pastore della Chiesa universale, ferito da un mondo che voltava le spalle alla fede e dalla perdita dell’amico più caro, quel presidente della Democrazia cristiana che era stato rinvenuto cadavere in una giornata di maggio.
Il 6 agosto Paolo VI se n’era andato. I tempi non erano ancora maturi per un papa non italiano e il conclave pareva orientarsi verso il granitico vescovo di Genova, il cardinale Siri, o verso Pignedoli, incaricato per il dialogo con i non cristiani. A tirare le fila l’arcivescovo di Firenze, Benelli, che – anche su spinta dei cardinali stranieri – individuò il punto di caduta su un uomo schivo e riservato, timido e umile, Albino Luciani.
Il patriarca di Venezia era fuori da tutti i giochi e, in fondo, era per tutti un’incognita. L’unico a muoversi apertamente in suo favore era stato proprio Paolo VI che, in una recente visita in laguna, lo aveva onorato togliendosi dalle spalle la propria stola per posarla sulle spalle del patriarca. A molti sembrò un’investitura e il fatto generò stupore.
Così, in modi che solo Dio conosce, Albino fu chiamato ad entrare nel palcoscenico della storia. Si rivelò da subito un conservatore rivoluzionario, tanto attaccato alla tradizione quanto innamorato del cuore dell’uomo. La vicinanza, tratto distintivo del suo ministero di prete e di vescovo, diventava in lui capacità di comprensione e la parola che ne scaturiva si manifestava in tutta la sua potente semplicità. Il suo appello al mondo, un appello accorato di poco più di un mese, era rivolto ai credenti: noi dobbiamo prenderci l’impegno di essere a posto con noi stessi. E non solo moralmente: dobbiamo diventare umili per poterci conoscere, per poterci rivolgere a Chi ci è Padre, per poter cambiare.
L’umiltà, tanto cara a quel figlio di Canale d’Agordo nato nel 1912, era la chiave di ogni riforma. Non la rivoluzione, non l’ideologia, non la politica o il successo, ma quel profondo e inaudito contatto con se stessi che porta l’uomo al cospetto di se stesso, al cospetto del Mistero di Dio.
Domenica 4 settembre Luciani sarà proclamato Beato. E l’anno sociale, che simbolicamente si apre con oggi – l’1 di settembre – non poteva non iniziare con un volto più significativo ed emblematico. Di fronte ad un Paese disorientato, a tratti disilluso e scoraggiato, di fronte ad un autunno difficile, tra guerre presenti e future, con crisi sempre più grandi pronte a travolgere ogni umano progetto, di fronte ad una vita che a volte stenta a trovare la sua bussola, Luciani è ancora oggi profeta di speranza, di una novità che non viene da un nostro sforzo, ma dall’arrenderci ad un fatto che sta per accadere e che possiamo scorgere ogni volta in cui ci mettiamo davvero in ascolto, disponibili a farci smuovere e inquietare.
La vita non cambia per una strategia o per il perseguire una nostra misura. La vita cambia perché, ad un tratto, ricomincia. E ogni morte, anche quella del “papa del sorriso”, non è altro che il preludio di Qualcuno che viene, di Qualcosa che inizia. Qualcosa che, di solito, viene da lontano. Nel 1978 quel “qualcosa” si chiamava Karol Wojtyła, nelle vite di ognuno di noi – nel 2022 – si chiama imprevisto. L’inaudito di Dio che, contro ogni pronostico, non si è ancora stancato di noi ed illumina il nostro cammino col volto di chi non t’aspetti. Col dono dei suoi santi.
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