Negli ultimi anni la ripartenza della scuola è diventata, per un crescendo di studenti, un fattore di ansia. Abituati a vivere in un tempo in cui la loro volontà agisce incontrastata, e dove in fondo nulla la ostacola e la argina, la scuola si presenta inevitabilmente come qualcosa. Perché la scuola è qualcosa. E questo qualcosa, per quanto addomesticato dalle logiche a volte pervasive dei rapporti tra docenti e famiglie, inesorabilmente si pone.
Si potrebbe dire che per un adolescente medio dei nostri giorni la scuola è l’ultima cosa rimasta, l’ultimo pezzo di realtà con cui è costretto a fare i conti. L’avanzata del nichilismo ha coinciso con l’emergere di un paradigma educativo in cui i genitori sono biasimati ogni qual volta pronunciano un “no” alle volontà dei figli. Il biasimo viene dalla società, che li accusa di essere retrivi e poco pronti alle “magnifiche sorti e progressive” della modernità, ma avviene anche da un lavoro interrotto che la generazione oggi deputata alla responsabilità genitoriale non ha portato a termine, ossia quello di riappropriarsi davvero dell’eredità morale e spirituale dei propri padri, eredità giudicata come vetusta e desueta, orpello inutile da sovvertire.
Ne è derivato un adulto insicuro, che cerca costantemente di essere all’altezza del proprio compito e di fuggire in ogni modo il senso di colpa. Così, il buon genitore – in un numero considerevole di casi – asseconda le fluttuanti ed emotive volontà dei figli scambiandole per scelte, financo per inclinazioni o talenti. Il genitore deve essere irreprensibile: procurare ai figli i libri corretti e “in tempo”, dotarlo dei giusti quaderni, avvedersi circa l’esatta ubicazione delle aule del ragazzo, lavorare a che abbia i docenti migliori e i compagni da tempo desiderati e sospirati. Poi, alla partenza dell’anno, le spiegazioni devono essere intellegibili secondo il gradimento delle famiglie, perché se uno studente non capisce è certo responsabilità del docente incapace, così anche il voto – in fondo – deve essere rivisto dal tribunale domestico che, senza esitazione, conferma che “a casa mio figlio queste cose le sapeva, l’ho interrogato io” oppure l’ha preparato il personal trainer intellettuale che a fior di quattrini si adopera per ottenere il meglio, dal punto di vista dei numeri, delle performance possibili.
Il risultato è che quasi nessun ostacolo si para davanti agli studenti, tutto è predeterminato e risolto dalle amorevoli strategie che, mediante impossibili chat di gruppo o inenarrabili colloqui scuola-famiglia, permettono un sereno cammino ai figli che – in questo mondo fatato – non potranno mai avere niente da rimproverare ai genitori.
Eppure la scuola serve esattamente all’opposto: la scuola è realtà che prepara alla realtà, la scuola è fatica, difficoltà, impegno, sforzo per dire in prima persona che cosa va e che cosa non va. Ridurre la scuola a un non-luogo non genera figli più felici, ma più incapaci e, in fondo, più soli.
Il nuovo anno scolastico che sta iniziando troverà una scuola ancora tramortita dagli anni della pandemia e travolta dal Pnrr e dalla crisi energetica. Una scuola in cui la pallina degli organici sembra non fermarsi mai, portando ogni anno nuovi docenti e nuovi inizi che complicano tutto e che finiscono per diminuire la credibilità dei docenti e del sistema di istruzione. Eppure, sebbene fra decine di problemi, la scuola che riparte è qualcosa che si pone, è come un’iniziativa del Mistero della vita che entra nelle vite di milioni di bambini e di ragazzi. Guardarla con simpatia non è un’operazione di nostalgia rispetto ai nostri tempi di alunni, ma un dovere del cuore che – di fronte al destino di chi viene dopo di noi – non sceglie di spegnere il dolore. Ma di scommettere sulla libertà.
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