Si fa di tutto per evitare il dolore. Molti arrivano perfino al suicidio per non sentirlo più. Suicidio che, secondo l’Unicef, è la seconda causa di morte – dopo gli incidenti stradali – per i giovani europei. Il dolore, si dice, è nemico della felicità: se c’è dolore io non posso essere felice. Per questo, se c’è dolore, è meglio staccare la spina. Per questo, se c’è dolore, è meglio separarsi. Per questo, se c’è dolore, è meglio rifiutare un figlio. Tutto ciò che ostacola la volontà di potenza dell’uomo contemporaneo deve essere eliminato: i figli non devono sentire dolore, la vita non deve mai passare per l’esperienza del fallimento. Nessuno a stento sopporta più l’imponenza di un “no”, di una sconfitta, di una fine.
Eppure non è questa la forma di obbedienza all’esistenza cui le generazioni del novecento ci hanno consegnato: c’è stato un tempo in cui c’era spazio per il sacrificio, per l’abnegazione, per la scelta di stare anche quando tutto sembrava finire. La Chiesa ricorda il 14 settembre la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, un ossimoro rispetto alla mentalità appena descritta: nella morte di Cristo nessuno è contento di morire, ma la croce è scoperta come inaudita e impensata strada alla resurrezione.
Ancora oggi, in un mondo decisamente post-cristiano, la rivoluzione del crocifisso è una sfida alle paure e ai drammi dell’uomo contemporaneo, è un invito a rimanere quando l’amore si spegne, quando l’orizzonte si fa piccolo, quando il senso sembra sparire. Se rimani puoi vedere la fine della notte, se te ne vai avrai sempre più paura. Ma come è possibile rimanere?
Il Cristo nel Getsemani si mostra tutt’altro che un masochista: Egli vorrebbe allontanare da sé il calice del dolore, ma è più grande per Lui la fiducia nel Padre che ogni altra Sua valutazione soggettiva. Che cosa c’è, oggi, di più grande di quello che pensiamo? Che cosa c’è oggi di più vero dei nostri progetti, dei nostri ragionamenti, delle nostre teorie? L’assenza di un Padre, l’assenza di Uno di cui possiamo fidarci, su cui possiamo scommettere – come l’Abramo evocato da Kierkegaard – anche la vita di nostro figlio, si traduce in un cuore malfidato, in un cuore risentito, in un cuore ferito e tradito.
Essere diventati autonomi dal Padre, da ogni paternità, non ha reso l’umanità più libera, ma più diffidente, più guardinga, più permalosa. Niente porta più una promessa, tutto annuncia una condanna. E la realtà smette di essere un lavoro entusiasmante, per comprendere di che cosa ciò che sta accadendo è segno, e inizia a diventare un incubo. Vivere si trasforma così in un continuo sentirsi vittime, ammaccati da fatti che ci avevano detto essere sempre piacevoli, ma che piacevoli non sono quasi mai. Perfino nell’educazione si tende a proteggere i figli dall’urto delle cose, rendendoli più insicuri e più soli.
Colpiva in questi giorni di settembre come la scomparsa della Regina Elisabetta sia avvenuta l’8 settembre, giorno che la Chiesa cattolica dedica alla nascita di Maria. Elisabetta è stata per il popolo britannico come un’eco di maternità, un’eco di quell’istanza ultima su cui è possibile investire, per cui è possibile attendere. Sotto la Croce la Madonna, trasfigurata dal dolore, non scappa e in quel rimanere trova un dono nuovo, una maternità nuova. Innalzare la Croce non significa per un cristiano brandire la fede o acclamare la sofferenza, bensì fare memoria di un Bene che ci aspetta al di là di ogni male, di ogni peccato, di ogni oscurità.
Fa sorridere pensare che in un mondo così intelligente e autonomo sia proprio la croce di Cristo a porre gli interrogativi più decisivi e determinanti. L’uomo non vive di paura, l’uomo può vivere d’amore. E se non c’è riconoscimento di quell’amore tutto diventa terribile, tutto diventa disperazione. Anche l’amicizia più bella, anche la compagnia più vera, anche l’amore più autentico. Un giorno ci si gira nel letto e, mentre l’altro ancora dorme, ci si rende conto che in fondo – dopo tutte le feste e i viaggi, dopo tutti i figli e le apparenze – si è coltivata solo un’ultima estraneità. E se quell’estraneità non diventa il luogo dove stare, la Croce dove attendere, essa finisce per rivelarsi come la fine di tutto. Senza Croce ciascuno di noi è condannato a essere ostaggio di quello che prova, senza Croce tutto acquista un prezzo e non c’è più spazio per nessuna gratuità. Senza Croce il dolore non diventa una strada, ma l’inevitabile dazio che alimenta tutti i giorni il non senso della vita.
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