Queste righe sono un ragionamento del lunedì. Non però sull’esito della consultazione elettorale: scrivo ad urne ancora aperte. Lunedì come giorno dopo dell’elettore, non degli eletti. Giorno in cui tipicamente tocca ricominciare la normale, modesta, implacabile fatica quotidiana. Rispetto a ciò, cinque brevi riflessioni, riesumando altrettanti slogan.
Votare fa crescere
Ci sarà chi ha votato per tifoseria, chi per rabbia, chi per speranza nel nuovo demiurgo. Ma c’è gente per la quale il voto è stata un’occasione di presa di coscienza della realtà e dei suoi problemi, una rinnovata o un’inedita assunzione di responsabilità, e quindi una crescita personale. Gente che ha cercato di documentarsi e di capire, al di là del baccano a tratti surreale di una campagna elettorale che è sembrata combattuta da poco credibili emuli di Hulk Hogan o di Vanna Marchi, il campione della lotta teatrale e la madre di tutte le imbonitrici. Crescita personale: a cominciare dalla semplice consapevolezza che il voto è un diritto, ed io esigo di essere riconosciuto e perciò questo diritto lo esercito. E guai a chi me lo tocca.
Il personale è politico
Ovvero, reinterpretando lo slogan sessantottino, la prima politica è vivere. Il lunedì mattina si va a studiare o a lavorare. Ma come lo si fa non è affatto irrilevante per la società e quindi per la politica. Se il primo problema dell’Italia è l’inverno demografico – e lo è –, che ci sia gente che fa famiglia e mette al mondo figli è un fatto fondamentale per il futuro dell’intera società. Sia per il contributo demografico, ma sia soprattutto perché essa testimonia la virtù più preziosa, cioè la speranza. Chi tira la cinghia per mandare i figli alla scuola che ritiene più adeguata, vale dodici Enrico Toti. E chi aiuta ad introdursi al lavoro inteso non come dazio da pagare per tirare avanti, ma come dimensione di autorealizzazione della persona, mette il seme migliore per riformare il mercato del lavoro e adottare politiche attive. L’assetto del potere è importante, ma più importante è che ci sia della gente viva. Pensiamo ai russi che protestano sapendo di finire nelle galere di Putin: ammirazione infinita e groppo alla gola.
Libertà è partecipazione
Non è il volo di un moscone, non è star sopra un albero, diceva Gaber. Non è stare al balcone, ha detto e ripetuto papa Francesco. Libertà è innanzitutto di prendere coscienza del valore civile e politico del vivere personale consapevole, orientato da un ideale. E quindi è mettersi insieme per quel valore ideale e per quella esperienza da proteggere e offrire come contributo al bene comune della collettività. Nasce da qui l’esigenza della sussidiarietà come metodo del rapporto tra società e politica.
L’Italia è andata avanti come progresso economico e sociale quando lo Stato ha saputo cogliere e valorizzare sia il tessuto solidale diffuso sul territorio organizzato in corpi intermedi, sia la genialità creativa e imprenditoriale in tanti campi, dagli elettrodomestici alle macchine per scrivere, dagli scooter alle utilitarie, per citare solo le cose più famose. E il Piano di aiuti Marshall rispettò i tratti caratteristici dell’economia italiana, non impose una transizione ad altri modelli. Oggi senza la genialità di Ferrero o Luxottica o Ferrari non saremmo nessuno; e senza un poderoso Terzo settore saremmo stati battuto 6-0, 6-0 dalla pandemia.
Democrazia vuol dire fiducia
Ovvio che è più facile dire come Johnny Dorelli “Galbani vuol dire fiducia”. Ma è vero che senza fiducia la democrazia è minata. Che ci sia una grande dose di sfiducia nella politica è innegabile. Ma è altrettanto innegabile che essa è stata prodotta. La fine della guerra fredda e la caduta del comunismo destabilizzarono l’Italia, che perse il suo ruolo strategico di avamposto dell’Occidente; da qui la perdita di potere della classe politica di governo e l’inizio di una transizione “basata sulla demolizione della fiducia” (cfr. ad esempio F. Fubini-J. Krestev, L’impero diviso, Solferino, pag. 31), cioè sul postulato che la gente non fosse parte del sistema, ma vittima innocente. Perché un Paese vada avanti occorre almeno una discreta quota di fiducia nelle istituzioni e in chi le rappresenta, senza non si va da nessuna parte, e lo abbiamo visto bene. Rimane il lamento o la pretesa. La fiducia, però, sta su su due gambe: la credibilità dell’interlocutore, certamente; ma anche la consistenza dell’io, la solidità della persona. Insomma: più uno è malcerto, più è diffidente e arroccato; più uno è solido, più è aperto e realista.
Ieri, al di là di tanti interessati piagnistei sul partito dell’astensione, io ho visto un desiderio di fiducia e di partecipazione. Speriamo che questo desiderio non sia deluso e contraddetto.
El pueblo unido jamás será vencido
Gli Inti-Illimani erano forse troppo ottimisti nel proclamare che il popolo unito non sarà mai sconfitto. Ma la gente viva, un popolo che continuamente vive e si riorganizza nelle sue formazioni dal basso non può non spingere anche la politica alla ricerca del bene comune e delle convergenze utili, anziché allo scontro purchessia. Comunque queste formazioni, se recuperano sempre il loro motivo ideale attraverso una educazione permanente, non possono non tessere dialogo e collaborazioni. Se non rinuncia a se stesso per inseguire le girandole dei poteri, il popolo non sarà sconfitto. Come ho sentito dire dal professor Vittadini, il potere e i suoi uomini passano, un popolo vivo rimane. E può sempre ricominciare. Sempre che sia vivo.
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